La mistica della Patria
di Fabio Todero
Il percorso
Per cercare di capire il fenomeno D’Annunzio a Fiume, il ruolo giocato dalla sua oratoria e dalla sua personalità, la funzione «patriottismo» ed il peso che questa esercitò sull’intricata vicenda fiumana, è necessario a mio parere cercare di costruire un percorso che si muova da alcuni momenti cruciali della storia italiana nei quali il «discorso patriottico» rivestì una particolare importanza: solo in questo modo, infatti, quella che nel 1915 e nel 1919 fu la risposta alle sollecitazioni di D’Annunzio troveranno una qualche possibile spiegazione, pur in tutta la loro contraddittorietà e anzi proprio in questa. In questo senso, ancora una volta la Grande guerra ci apparirà come punto di svolta della storia della mentalità, anche sotto il profilo del recepimento del discorso patriottico. Inoltre, si cercherà di stabilire una linea di continuità all’interno dell’opera e dell’attività dannunziana ed in particolare di alcuni aspetti di queste che si concentrano intorno a tre particolari momenti: il periodo dell’interventismo; il periodo dell’immediato dopoguerra, a trattative di pace in corso; le orazioni fiumane.
In questo modo, sarà possibile ricostruire le tappe di un itinerario che affonda le sue radici più profonde nel Risorgimento e che si sarebbe dipanato in maniera non lineare nel complesso periodo dell’Italia d’anteguerra.
La vicenda di Fiume, infatti, per quanto possa essere apparsa precorritrice di future esperienze storiche (non penso tanto al fascismo, quanto agli accostamenti con il 1968) è stata innanzitutto figlia del suo tempo: un tempo ricco di fermenti e di contraddizioni, tra i quali particolarmente significativa era la presenza, nella cultura italiana, di un filone di critica radicale alle istituzioni dello Stato liberale confluito appunto, attraverso un itinerario complesso, nella violenta affermazione del fascismo. Dunque, piuttosto che a suggestive ma rischiose fughe in avanti, queste pagine guardano all’esperienza fiumana in relazione alle proprie molteplici radici, e all’orizzonte d’attesa proprio del tempo nel quale essa si collocò.
Non posso nascondere le difficoltà di un percorso come questo, che al suo centro pone l’analisi di una serie di concetti paludati dall’ars retorica dannunziana: un linguaggio artificioso ma elegante, pericolosamente affascinante e colto ma anche terribilmente efficace. Quasi incomprensibile per il lettore di oggi, quando questi non sia uno specialista, bisognoso di note e riflessioni. Ma un linguaggio capace, per allora, di ammaliare e di tradursi in azioni: tale fu, appunto, l’impresa di Fiume; tale era stata la campagna per l’intervento del maggio 1915.
Proprio perchè il materiale sul quale lavoreremo è fatto soprattutto di parole, iniziamo il nostro viaggio verso Fiume analizzando un campione dell’oratoria dannunziana.
Premessa
Io partii solo da Venezia nel pomeriggio di giovedì 11, con due buoni compagni e con trentanove gradi di febbre. Scelsi il giorno 11 in commemorazione dell’impresa di Buccari. Il mio piccolo quartier generale notturno stava di faccia all’alberghetto dove gli sbirri sorpresero Oberdan. La partenza fu ritardata da più di una avversità. Potei superare ogni impedimento, e formare la colonna verso le cinque del mattino. Le stelle brillavano come in Quarto dei Mille. Erano tutte fauste. L’alba era corsa da un brivido garibaldino. Su la via di Fiume presi con me quanti volli. Poche mie parole bastavano a muovere compagnie, battaglioni, squadriglie.
Si tratta di una pagina tratta dai discorsi rivolti da Gabriele D’Annunzio ai suoi seguaci o alla popolazione di Fiume con una cadenza che inizialmente fu quasi quotidiana. In particolare, questo passo è tratto da un’orazione pronunciata il 17 settembre 1919, a cinque giorni dall’ingresso dei suoi legionari nella città liburnica; al centro di queste poche frasi è la parola dannunziana, capace di trasformarsi in azione, di plasmare le coscienze e la volontà di chi ascolta: qualcosa di simile, a proposito di richiami alla sfera religiosa, al Verbo creatore (Genesi) o a quanto si può leggere nel libro di Giuditta: «...e nessuno può resistere alla tua voce».
Oratore e uditorio si fanno così un corpo solo e una volontà sola.
Nell’ideologia dannunziana, è stato osservato, le parole
debbono fare appello all’azione e opporsi alla remissività. […] Alla gente comune gridava : «Me ne frego»; ai più raffinati: «Semper audeamus!». Tutti i discorsi terminavano al grido di Eia, eia, eia, alalà!, uno slogan che per primo aveva evocato per incitare i suoi soldati a combattere durante la guerra e che divenne il segno caratteristico del suo stile politico.
Nel testo dal quale siamo partiti si trova concentrata tutta una serie di elementi chiave per l’edificazione della mitologia patriottica dannunziana, portata nei giorni di Fiume al massimo grado, con il massimo effetto:
a. il ricordo di Buccari, con l’indiretto richiamo alla Grande guerra, ma anche al tema dell’italianità adriatica, nonché alla personalissima mitologia dannunziana;
b. il ricordo del quartier generale di Ronchi posto accanto al luogo della cattura di Oberdan, e dunque il richiamo al primo martire dell’irredentismo;
c. l’evocazione delle imprese garibaldine, ma anche del radioso maggio, aperto appunto dal discorso di Quarto;
d. un tocco di antico, con il riferimento al favore delle stelle;
e. naturalmente, infine, su tutto domina la parola del Vate con la sua capacità formativa e trasformativa ...
... «poche mie parole bastavano a muovere compagnie, battaglioni, squadriglie»... per rendersi conto del peso di queste parole sarebbe sufficiente riflettere sul fatto che nomi ed eventi qui evocati (altrove ne incontreremo degli altri, assai più ricercati) sono oggi tanto distanti dall’immaginario collettivo quanto invece erano ben presenti alla memoria dei suoi contemporanei.
Anche se dell’avventura fiumana non fu certo l’unico motore o la sua causa prima,– cosa della quale potevano probabilmente illudersi esteti, poeti, artisti e curiose figure di dandy che vi presero parte – alle sue origini e per tutta la sua controversa durata, la parola dannunziana vi occupò un posto notoriamente centrale. E come vedremo, il suo ascendente era straordinario, anche in virtù del ruolo che aveva esercitato sia nel periodo della lotta per l’intervento che durante il conflitto.
Per comprendere almeno in parte alcune delle ragioni della presa che un intellettuale poteva avere sulla società italiana – o su parte di essa – giova ricordare che D’Annunzio utilizzò con grande abilità tutte le possibilità che i mezzi di comunicazioni della sua epoca potevano offrirgli, facendo della sua stessa vita uno strumento per porsi al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica. In effetti, i molti scandali e le sue numerose imprese amorose, i duelli, il suo avventurismo politico, un uso spregiudicato dell’erotismo anche nella veste editoriale dei suoi testi che sfiorò la pornografia, avevano finito per renderlo un personaggio assai noto in Italia. Più noto, molto probabilmente per questi aspetti pubblici della sua vita privata, che non per l’attività letteraria. Le sue opere, del resto, non intendevano – né avrebbero potuto – essere rivolte a un pubblico di massa, che venne invece conquistato dall’uomo, piuttosto che dallo scrittore. Va da sé, che prima ancora che le sue audaci imprese belliche, ne ingigantissero la fama, la sua popolarità era tale da indurre un critico siciliano, Giuseppe Antonio Borgese, a coniare nel 1909 il termine «dannunzianesimo», indicando con esso una moda diffusa:
…essere dannunziano non significa ripetere d’Annunzio e nemmeno adorarlo in una resupina passività. Significa ingigantire l’importanza del caso d’Annunzio, pensare per lui o contro di lui, senza tregua e senza dimenticanza, farsi dell’arte sua e della sua persona una specie di mania, d’idea fissa, di luogo comune, dove si rifugia lo spirito nei suoi intervalli di pigrizia. Ed in questo senso, che è il vero, è dannunziana tutta l’Italia, la quale, per ragionare e discettare intorno a d’Annunzio, farebbe n fascio di tutte le questioni di politica estera e di politica interna, di salarii e di scioperi.
Con facile ironia, potremmo dire che Borgese aveva visto giusto, anche se sarebbe stata proprio la politica estera a consentire che la moda a lui intitolata conseguisse il suo massimo successo.
Successivamente, furono le imprese belliche assai più che le sue opere letterarie, tanto raffinate quanto per questo, e non a caso, assai lontane dalle possibilità dei più, a renderlo popolare presso un pubblico di massa:
Ricordo, – ha scritto Giuseppe Petronio – quando uscì il Notturno, la lettura e i commenti di mio padre, mia madre e i loro amici: piccoli borghesi senza lettere. Lo leggevano e ne discutevano tanto per i suoi valori di stile o perché era di D’Annunzio, l’autore del volo su Vienna, della beffa di Buccari?
Più fenomeno di costume che letterario dunque, fu un altro grande siciliano, Luigi Pirandello, a definire D’Annunzio artefice di una letteratura di parole – e non era davvero un complimento – da contrapporre a Verga, scrittore invece di cose.
Certo, della parola D’Annunzio fu grande artefice: ne sperimentò largamente l’uso nella lirica, nella narrativa breve, nel romanzo e nel teatro – ma anche nella musica: il libretto de Le martyre de Saint Sébastian e perfino nel cinema: sua la sceneggiatura di Cabiria (1914) – ; poi fu la volta della memorialistica e soprattutto, per ciò che più riguarda il nostro discorso, dell’arte oratoria…
In un primo tempo, D’Annunzio era stato tra i più aspri polemisti contro la democrazia e lo Stato «eretto su le basi del suffragio popolare e dell’uguaglianza, cementato dalla paura»; a questo, egli contrappose l’aristocrazia della nascita e del censo, cui attribuiva cultura e sensibilità. In opposizione alla borghesia, esaltò una nuova oligarchia, «nuovo reame della forza» capace di «ricondurre il gregge all’obbedienza». Ai poeti spettava il compito di far rivivere il senso della bellezza e del pensiero. Più tardi, D’Annunzio guardò a mitici eroi del passato, o al borghese d’eccezione mentre fu tra i primi cantori dell’impresa di Libia. Fu tra i primi anche a cantare le macchine, coniò anzi il termine velivolo, mitizzando la tecnologia e l’industria. A prescindere dalle molteplici sfaccettature del suo pensiero,
nel suo decadentismo estetizzante la Parola, la Poesia, il Verso, la Bellezza, li vedeva sempre strumenti di un’azione capace di incidere sulla realtà del mondo e di modificarlo. Non per niente l’attrasse tanto, per alcuni anni, l’immagine di Wagner, con le sue opere colme di «messaggi» e il suo teatro di Bayreuth aperto alle folle…
Parola e linguaggio dannunziani (nonché quello che chiameremo genericamente il «discorso patriottico», riferendoci non esclusivamente a D’Annunzio) vanno pertanto interpretati alla luce di un’epoca nella quale:
a. Oratoria, retorica, linguaggio, ma meglio sarebbe dire linguaggi, manifestazioni, celebrazioni che vedevano la partecipazione di larghe schiere di persone, occupavano un posto importante nella vita politica e sociale italiana (e non solo italiana); per i meno accorti, ricordo anche che allora i grandi mezzi di comunicazione di massa, fatta eccezione per le prime sale cinematografiche, ancora non c’erano;
b. tali generi ed occasioni, veicoli in primis di un discorso nazionale-patriottico dalle sfumature fortemente religiose, erano stati largamente utilizzati negli anni che precedettero la Grande guerra; momento culminante della diffusione di sentimenti patriottici, secondo gli studi di Emilio Gentile, le celebrazioni per il Cinquantenario dell’Unità d’Italia; anche il consenso pressoché coevo a quelle celebrazioni, con cui fu generalmente accolta la Guerra di Libia rientra in quest’ambito; si tratta di una strategia che, con il concorso di altri fattori (scuola, esercito, toponomastica, arredo urbano, musei) venne utilizzata in quel processo di educazione ai valori della nazione che è stato definito «nazionalizzazione delle masse» (Mosse);
c. esse, ancora, furono largamente utilizzate nel periodo della Grande guerra, evento chiave, ormai lo sappiamo, del Novecento; evento chiave anche sotto il profilo della creazione di miti e di simboli nonché, per quanto essa influì sulla costruzione di una religione della patria … in tale contesto, l’accentuazione del ricorso alla sfera del religioso è profondamente legato al culto del soldato caduto, rituale largamente diffuso nel paese (e in tutti i paesi usciti dal conflitto), anche in relazione al diffuso clima di lutto presente nell’Italia – e nell’Europa – del primo dopoguerra;
d. dunque, tutti questi elementi che certo nello stile, nel linguaggio e perfino nella gestualità di D’Annunzio assumono connotazioni particolari, non nascono adulti come Minerva dal cervello di Giove. Essi hanno viceversa alle spalle un percorso significativo che non era certo rimasto estraneo alla coscienza degli italiani, specie naturalmente a quella delle classi colte, e non rappresentavano per essi una novità assoluta; la novità era semmai rappresentata dal contesto e dalle modalità con le quali il vate avrebbe potuto sperimentarne l’efficacia, e mi riferisco evidentemente proprio all’impresa fiumana. Si ricordi inoltre che D’Annunzio non fu il primo a proporsi quale cantore delle gesta nazionali: prima di lui, con analoga autorevolezza, sia pur con personalità e modalità diverse, c’erano stati Giosuè Carducci poi l’allievo di questi, Giovanni Pascoli, cantore delle gesta coloniali della «grande proletaria». Sull’importanza assunta dalla figura del «poeta» ha scritto George Mosse: «Durante l’Ottocento il rapporto tra poesia e politica subì una profonda trasformazione. Il poeta, ottenuto un posto significativo nella creazione della politica dell’epoca diede un contributo in qualche modo nuovo, essenziale e originale all’arte di governare».
Anche per questo, nel nostro percorso faremo un largo uso di testi utili a capire una temperie e una mentalità, avendo ben presente che se quei modelli possono apparirci lontani ed estranei (meno male, aggiungo io), ciò non vale per le generazioni passate; per esse quel linguaggio, l’uso di determinate figure retoriche, di riferimenti culturali, mitologici e simbolici erano cosa corrente specie per quanti potevano accedere a un’istruzione superiore. Volgendo inoltre la nostra attenzione al primo dopoguerra, non vanno dimenticate la funzione «pedagogica» che ebbe in Italia la mobilitazione di massa e i suoi effetti su milioni di italiani (detto tra noi sarebbe stato meglio adottare modelli pedagogici più prudenti!). Questa operazione ci consentirà di capire, almeno in parte, le ragioni per le quali l’oratoria, e in genere ogni forma letteraria che si richiamava al patriottismo, si collocasse in quello che i sociologi della letteratura chiamano «orizzonte d’attesa», per non dire che non si tratta evidentemente di un mero fenomeno letterario.
Non si può però parlare di impresa fiumana senza parlare di Grande guerra: questo, non solo per ovvie ragioni innanzitutto cronologiche e poi evidentemente politiche e diplomatiche, ma anche per ciò che concerne la storia della mentalità cui la Grande guerra impresse una svolta fondamentale, come hanno magistralmente dimostrato gli studi di E. J. Leed, P. Fussell, G. L. Mosse.
A questo riguardo, ricordando anche le considerazioni svolte da Tullio De Mauro, Antonio Gibelli ha sottolineato come «l’esperienza della mobilitazione e la vita di trincea ebbero una notevole influenza sulle pratiche di lettura e di scrittura nonché sui fenomeni linguistici» anche se, «malgrado gli sforzi, la vita reale del fante e la sua mentalità rimanevano largamente impermeabili, per la buona ragione che il loro più autentico, profondo desiderio, continuava a essere di farla finita con la guerra … ». Da parte sua, Emilio Gentile, differendo nella sua valutazione da quella di Gibelli, ha osservato che «nell’esperienza della prima guerra mondiale, gli italiani si sentirono forse per la prima volta cittadini di una patria comune, anche se fu un sentimento di breve durata». Sentimento di breve durata perchè ben presto, nell’immediato dopoguerra, quella Patria si spaccò, e una delle fratture che la attraversò fu proprio la vicenda fiumana.
Certo è che gli effetti della Grande guerra, la prima guerra di massa della storia, sulla mentalità comune furono incomparabilmente più importanti di quelli, assai modesti in verità anche nel senso della diffusione degli ideali patriottici, conseguiti dai conflitti risorgimentali. Inoltre, se la pedagogia nazionale della Grande guerra non raggiunse interamente i suoi scopi, a operare sarebbe stata la memoria dell’esperienza, che penetrò in profondità nel tessuto sociale e civile italìano.
Parole chiave
Dovendo fare i conti con un periodo e un fatto storico nel quale le parole furono così importanti, ritengo corretto partire proprio dalle parole che ricorreranno più frequentemente in questo mio intervento, prima della quali, e non potrebbe essere diversamente, la parola patria.
Nel Vocabolario italiano della lingua parlata (Barbera ed., Firenze 1906), di Giuseppe Rigutini e di Pietro Fanfani, illustre filologo toscano dileggiato da un coriaceo Giosuè Carducci di cui avremo tra breve modo di parlare, al lemma «patria» troviamo:
Paese, Regione dove altri è nato e vissuto alcun tempo, e dove avevano domicilio i suoi genitori; ma nel più alto e nobile senso abbraccia il paese dove uno è nato, e la nazione di cui fa parte: «Gli Svizzeri, che sono fuori per ragioni di commercio, desiderano sempre la patria: - Stato per molto tempo in Francia, alla fine è voluto tornare in patria: - Amore di patria: - Combattere per la patria: - Finalmente la nostra patria è libera dagli stranieri: - Bisogna amare sopra ogni cosa Dio, la patria e i genitori: - Uomo che amava la patria: - Il Re ha difeso la gloria della patria: -Ha tradito la sua patria: Cari ci sono i genitori, cari i parenti, cari gli amici, ma tutti questi amori l’amor della patria li comprende e li domina». La madre patria dicono que’ delle colonie all’antica patria de’ loro progenitori: «Per gli Americani la madre patria è l’Inghilterra». La patria celeste, intendesi Il paradiso. – Dal latino patria.
… al lemma «patriottismo»: «Qualità astratta di patriotta. Sincero e caldo amore di patria: “Niuno mette in dubbio il suo patriottismo».
… ancora, alla voce «patriottico»: «Di o da buon patriotto: “Sentimenti patriottici: - Azioni patriottiche.” E detto di cose che riguardano la libertà e il viver civile: “Canzoni patriottiche: - Dramma patriottico.” – Dal basso latino patrioticus.
In quest’ultima definizione, è possibile trovare cose piuttosto interessanti: patrottico è infatti accostato a termini come libertà e vivere civile: non vi è patria dunque, senza libertà e senza civiltà .
Esaminiamo, infine, la definizione di «patriotto» e della sua variante «patriotta»: «Chi ama la patria e si studia di giovarle senza curar di sé stesso: “È un buon patriotta: - Il coltivare la lingua è opera di vero patriotto.” [ed è quanto stiamo facendo qui, a quanto pare…] Della stessa patria, Compatriotto: “Egli è mio patriotto: - Siamo patriotti.” Dal greco πατρίωτης.
Le esemplificazioni scelte dall’illustre filologo toscano, aggiornate dal collega Giuseppe Rigutini, puntano come si può vedere su un concetto molto elevato di patria che viene avvicinato all’amore, alla gloria, alla distanza, al tradimento, alla morte, alla libertà, combattimento. Domineddio vi fa la sua apparizione, certo, ma Fanfani pensò opportuno ricordare l’espressione patria celeste, confinando la sfera del religioso ad un ambito determinato.
Il che ci rimanda all’altro termine del titolo, «mistica», evidentemente un concetto derivante dalla sfera religiosa. In effetti, esso si riferisce agli sviluppi della cosiddetta «religione della patria» nella particolare accezione in cui questa fu elaborata da Gabriele D’Annunzio; ci si collega pertanto all’idea sublimata di una patria, della quale i patrioti rappresentano il «corpo mistico», unione di spiriti in relazione tra loro grazie alla comune partecipazione a determinati valori e all’idea del sacrificio, della «testimonianza» del proprio credo, professato fino al martirio. Ma c’è anche, come vedremo, un’accezione geografica, di una geografia dello spirito, ad indicare territori che rientravano in un’idea più ampia di patria (una «più grande Italia», per dirla con D’Annunzio; mi riferisco qui, in particolare alla dannunziana Lettera ai Dalmati, sulla quale avremo modo di ritornare).
Occorre dunque cercare di capire che cosa il concetto di patria, letto alla luce delle interpretazioni linguistiche dell’epoca e collegato alla sfera del religioso, abbia potuto rappresentare per la generazione di italiani che affrontò la Grande guerra e che fu poi disponibile, ma in numero infinitamente minore, a seguire d’Annunzio nella sua avventura fiumana.
Per alcuni di essi infatti – una frazione minima, volendo fare un po’ gli statistici ma non mi pare si tratti di sola pedanteria: si consideri che nel triennio 1915-1918 erano stati mobilitati oltre 5.000.000 di uomini! – di tale esperienza l’impresa di Fiume rappresentò la continuazione e il coronamento; per altri, per i più giovani, essa ebbe invece una sorta di valore «compensativo». Se per ragioni soprattutto anagrafiche, questi non avevano potuto partecipare alla grande avventura, ora la questione adriatica permetteva loro di riempire un vuoto altrimenti incolmabile. Un fattore che avrebbe pesato anche nell’esperienza dello squadrismo.
A questo scopo, è necessario rivolgersi ad alcuni dei modelli educativi impartiti a quelle generazioni attraverso la letteratura e in particolare attraverso la letteratura per l’infanzia, quella che passava cioè attraverso il ciclo scolastico obbligatorio. Va da sé, che gli ideali del patriottismo, il dulce et decorum est pro patria mori, divenuto nelle mani di un giovane poeta inglese, Wilfred Owen, un tragico ammonimento, furono fatti propri soprattutto dalle classi colte.
Ciò precisato, a proposito di «amor di patria», ecco quanto si legge in uno dei testi chiave per la formazione – anche e soprattutto in chiave di identità nazionale e di idealità patriottiche – di alcune generazioni di italiani. Mi riferisco al libro Cuore (1888) di Edmondo De Amicis:
Lo sentirai (si intenda, l’amor di patria, N.d.R.) più violento e più altero il giorno in cui la minaccia d’un popolo nemico solleverà una tempesta di fuoco sulla tua patria, e vedrai fremere d’ogni parte, i giovani accorrere a legioni, i padri baciare i figli dicendo: –Coraggio! – e le madri dire addio ai giovinetti, gridando: – Vincete! – Lo sentirai come una gioia divina se avrai la fortuna di veder rientrare nella tua città i reggimenti diradati, stanchi, cenciosi, terribili, con lo splendore della vittoria negli occhi e le bandiere lacerate dalle palle, seguiti da un convoglio sterminato di valorosi che leveranno in altro i moncherini, in mezzo a una folla pazza che li coprirà di fiori, di benedizioni, di baci. Tu comprenderai allora l’amor di patria, sentirai la patria allora, Enrico. Ella è una così grande e sacra cosa, che se un giorno io vedessi te tornar salvo da una battaglia combattuta per essa, salvo te, che sei la carne e l’anima mia, e sapessi che hai conservato la vita perché ti sei nascosto alla morte, io tuo padre, che t’accolgo con un grido di gioia quando torni dalla scuola, io t’accoglierei con un singhiozzo d’angoscia, e non potrei amarti mai più, e morirei con quel pugnale nel cuore.
Quali informazioni se ne possono ricavare e come possiamo commentare simili atteggiamenti? E, soprattutto, è lecito pensare che i consigli dell’ispirato padre di Enrico Bottini – che talora, non a caso, si richiamano ai valori attribuiti alle madri dell’antica Roma – si siano effettivamente tradotti in comportamenti concreti da parte dei giovani lettori di queste pagine?
Ancora, alla radice di un culto religioso dell’amor di patria e della patria stessa, è il pensiero di Giuseppe Mazzini: la «nazionalità è sacra, la bandiera è stata data a ciascun popolo da Dio, la patria «è il segno della missione che Dio v’ha dato da compiere nell’umanità».
La traduzione in atti concreti di tali ideali patriottici fino al sacrificio di sé si possono rintracciare in diversi momenti della storia della giovane nazione italiana, nonché in luoghi determinati.
Ovviamente, il primo di questi momenti è rappresentato dalle guerre risorgimentali e in particolare dal volontarismo garibaldino, quando peraltro la diffusione degli ideali patriottici era ancora assai limitata, e la patria degli italiani doveva ancora essere costruita: è in quella temperie, infatti, largamente intrisa di un romanticismo esasperato, che si può rintracciare un atteggiamento di piena disponibilità a sacrificare la propria vita per la patria. Nel pensiero mazziniano, peraltro, nasce e si sviluppa l’idea di una religione della patria che tutti affratellava in una mistica unità. A fare da tessuto connettivo, elementi quale la lingua, le tradizioni, la cultura. Già in precedenza, esperienze mazziniane, spedizioni come quella dei fratelli Bandiera, sono intrise di romanticismo e di un senso talmente esasperato dell’amor di patria da rendere sublime la morte e il sacrificio per essa. E non era solo, per allora, questione di linguaggio…
Con il che abbiamo toccato un altro dei capisaldi della mitologia fiumana, quello del volontariato/ismo che dir si voglia che evidentemente è alla base dell’esperienza fiumana, con in testa il garibaldinismo; questo si intrecciò successivamente al mito dei volontari irredenti della Grande guerra.
L’eredità di questo aspetto particolare dello spirito risorgimentale – la disponibilità al sacrificio estremo per la patria – venne raccolta innanzitutto in quelle terre dove vivevano comunità di italiani ancora staccati – appunto – dalla «madre patria». A essa si sentivano uniti spiritualmente e volevano essere uniti effettivamente quanti si ispiravano ai valori dell’irredentismo: proprio nella comune lingua, cultura, ispirazione ideale essi individuavano i fattori che li facevano sentire parte della patria di tutti gli italiani, che nel frattempo era nata, pur essendone esclusi dal punto di vista amministrativo: una comunità che andava al di là della realtà tangibile, che affondava le sue radici in un passato letto in termini mitologici: l’eredità romana e veneziana interpretate in chiave nazionale!
Mi riferisco in particolare proprio agli italiani adriatici: nella regione adriatica, infatti, celebrata in versi celeberrimi proprio da Giosuè Carducci, il risorgimento era ancora vivo, al punto che un autore come Umberto Saba poteva ripetere che «nascere a Trieste nel 1883 – un anno dopo il caso Oberdan, nel quale forse era stato coinvolto suo padre – era come nascere altrove in pieno risorgimento».
Una patria ideale e idealizzata, vissuta con animus romantico, dunque, per la quale un personaggio come Guglielmo Oberdan intese sacrificare consapevolmente la propria vita…
...il gesto di Oberdan giustifica quant’altri mai il campo semantico al quale il termine irredentismo appartiene: quello del religioso e del sacro. La patria è infatti un valore assoluto, attiene alla sfera del sacro e per giovare alla sua causa, il sacrificio di sé viene ritenuto un percorso praticabile, se necessario, che trasforma il patriota in martire. Le terre della Venezia Giulia e del Trentino devono essere redente, liberate dal peccato originale di cui soffrivano, ovvero l’asservimento – o il presunto asservimento – all’Austria, e per far questo era necessario un redentore: Oberdan assunse questo ruolo, donando così la propria vita per la patria pur di perseguire il proprio obiettivo, la liberazione dei suoi conterranei.
Non è chi non colga, in tutto questo, analogie profonde con i contenuti della fede cristiana, a partire dal suo nucleo centrale: il sacrificio di Gesù, che offre la propria vita per la salvezza dell’umanità. Donde la sacralizzazione della memoria di Oberdan, e il vero e proprio culto che sarà coltivato intorno alla sua figura.
Allo stesso modo, nel discorso con cui D’Annunzio si sarebbe presentato ai fiumani, avrebbe esordito con espressioni che si richiamavano all’idea cristiana del totale sacrificio di te: «Eccomi, sono venuto per donarmi intero».
Chi percorra le sale del Museo del Risorgimento di Trieste – che in verità di qualche ritocco avrebbe decisamente bisogno – può ancora cogliere nei cimeli del primo martire dell’irredentismo (ma anche in quelli dei volontari giuliani della Prima guerra mondiale) il senso di questo nuovo culto laico della nazione e della patria … Non a caso, Giosuè Carducci poteva così scrivere a proposito della condanna del giovane triestino: «No, ..., Guglielmo Oberdan non è condannato. Egli è un confessore e un martire della religione della patria… Egli andò, non per uccidere, io credo, per essere ucciso».
A rinvigorire quei miti, sarebbe intervenuto il cinquantesimo anniversario dell’unità, proclamata da Giovanni Pascoli, che come già ricordato da Carducci aveva ereditato il ruolo di vate nazionale, «l’anno santo della patria ... Santo, io ripeto. Quello che noi facciamo e il popolo italiano fa, non è una festa e una commemorazione civile, ma è una cerimonia religiosa. Noi celebriamo un rito della religione della Patria».
È evidente, e non è solo questione nominalistica, che in questo modo il sentimento civile di amor di patria veniva trasposto da un piano terreno e politico, nel senso dell’appartenenza alla polis, a un piano sublimato, di ordine religioso ...
Eredi del gesto di Oberdan, i già ricordati volontari irredenti della Grande guerra, trentini e giuliani, dalle cui fila peraltro sarebbero provenuti alcuni dei protagonisti dell’impresa fiumana: il fiumano Nino Host Venturi, innanzitutto, capitano degli arditi e futuro fascista; Ercole Miani, Giuseppe Pogatschnigg (Pagano), Gabriele Foschiatti rappresentanti dell’ala mazziniana e repubblicana del composito mondo dei «legionari» fiumani (il primo sarà protagonista del CLN italiano di Trieste; gli ultimi due moriranno in un campo di concentramento nazista).
In estrema sintesi, Piero Pieri ha colto quale fosse la disposizione d’animo e la cultura dei giovani italiani di estrazione borghese alle soglie della Grande guerra; un’immagine che ben si adatta anche ai volontari irredenti, tenendo presente che in questo caso, le idealità cui fa cenno l’autore cadevano in un terreno quanto mai adatto ad accoglierli e con forza moltiplicata:
Il primo e secondo corso straordinario di Modena avevano preparato, in tre mesi, quasi settemila sottotenenti, pressoché tutti laureati o studenti universitari, il fiore veramente della futura classe dirigente italiana. Lo straordinario amalgama fra questi giovani, nutriti in gran parte di studi classici e permeati d’idealità risorgimentali, colla massa dei contadini e degli operai coi quali non avevano quasi avuto contatti, ma che il supremo sacrificio affratellava, fu una delle maggiori rivelazioni della guerra: ma troppi di loro pagarono colla vita l’anelito verso un’Italia migliore, sacrificati caparbiamente in vani attacchi frontali, fra i reticolati non abbattuti, privando la nazione dei suoi migliori elementi.
Le parole di Pieri, peraltro, mettono altra carne al fuoco, ma ci aiutano a capire quali siano stati gli altri capisaldi formativi di quella/e generazione/i (ma parlare di «generazione fiumana» è francamente un po’ troppo!): cultura classica, risorgimento … L’una e l’altra fornivano in abbondanza modelli di morti eroiche, di grandi personaggi che tutto avevano sacrificato all’ideale sublime della patria.
Per essi, per molti volontari, ben si può parlare di misticismo, di una consapevole pulsione di morte che li sospinse sui campi di combattimento della Grande guerra, rivelatisi assai meno romantici di quanto avevano potuto vagheggiare:
Se prima amavo l’Italia d’un amore d’oltre confine, amore di sogni e di visioni, di grandezze passate e di speranze, ora cominciavo ad amarla concretamente. Cominciavo a conoscerla così com’era nella realtà, anche nei suoi difetti e nelle sue miserie […]. Quella era l’Italia per cui alcuni anni dopo, insieme a mio fratello Carlo, che per quell’Italia s’immolò, io sentii senza alcuna titubanza che sarebbe stato bello morire.
oppure (Carlo Stuparich): «Anche la morte non è la stessa in ogni modo. C’è una morte italiana e ci sono altre morti. Ma soltanto quella può e deve essere la nostra».
Nel momento in cui questi volontari erano scesi in campo, non avevano avuto dubbi: ogni differenza politica o ideologica era stata cancellata, o momentaneamente riposta, davanti alla necessità dell’azione. E poterono aderire alla lotta per la guerra repubblicani, nazionalisti, simpatizzanti socialisti o anarco-sindacalisti, in quella confusione e mescolanza politica e ideologica che aveva caratterizzato il movimento interventista. Un mondo composito per il quale Salvatore Lupo, riprendendo Hannah Arendt, ha potuto parlare di radicalismo:
Il radicale si definisce non tanto per il contenuto quanto per la forma dell’agire politico; crede, cioè vuole fortemente, lotta per un futuro che tanto sarà migliore quanto sarà distante dal presente, disprezza il compromesso con il vecchio mondo, nega alla radice le ragioni altrui, carica l’idea dello scontro frontale (tra le idee, tra le classi, tra le nazioni) di un contenuto pedagogico, lo ritiene cioè l’unico strumento adatto a far «crescere» gli individui e le collettività.
Gran parte di questo mondo radicale si sarebbe ritrovato a Fiume, nel nome di una patria i cui contorni e i cui significati dovremo ora cercare di definire.
Quale patria?
Proprio quel momento cruciale della storia italiana – la scelta dell’intervento – ci pone un problema di fondamentale importanza che ci rimanda diritti alla questione fiumana: di quale patria stiamo parlando e di quale patria parlava D’Annunzio a Fiume, di quale patria sentivano parlare quanti a Fiume erano convenuti (per amore o per forza, ben inteso … ). Dobbiamo infatti parlare non solo di una patria ideale, ma di una patria altra rispetto a quella ufficiale: quella appunto di Giolitti e dei deputati che non avevano voluto il conflitto, deciso lo sappiamo con un colpo di mano della Corona e del ministro degli Esteri Sonnino, con il Patto di Londra.
In effetti, nel decennio che ha al suo centro proprio la Grande guerra, individuato da E. Gentile negli anni 1912-1922 (e dunque tra la fine della Guerra di Libia e l’avvento del fascismo), si affermano idee diverse di nazione, di patria, tra loro conflittuali. Tutte, però, individuavano nell’Italia liberale e nel parlamentarismo un esausto fantoccio da abbattere.
Atteggiamenti di critica anche feroce nei confronti della «patria ufficiale», ovvero dello Stato e del governo che la rappresentava, conoscevano in realtà una più lunga tradizione nel mondo intellettuale, dettata da svariate ragioni.
Fu questo il caso di Giosuè Carducci. Inizialmente cantore di un risorgimento mitizzato in visioni, nelle quali «i morti eroi della nazione sono in grembo a Dio, l’Austria è sotto la protezione di Satana […], a Montebello l’Italia che combatte esprime “la vendetta de’ popoli e di Dio”» (A. Piromalli, Introduzione a Carducci, Laterza, Bari 1988, p. 18), egli si volse poi alla critica: cantò così i morti guerrieri che vanno alla liberazione di Venezia perché i vivi non si muovevano per riscattarla e la mancata liberazione di Roma: poteva così lamentare «la nostra patria è vile…» o cantare
Oh non per questo dal fatal di Quarto
Lido il naviglio de i mille salpò
Né Rosolino Pilo aveva sparto
Suo gentil sangue che vantava Angiò …
Il poeta si muoveva così su una linea di «impegno politico di dissenso dalla classe dirigente che con la sua mediocrità aveva tradito gli ideali del Risorgimento» (Piromalli, 29) Nè è un caso che D’Annunzio, nella sua Lettera ai dalmati, riprendesse proprio questi versi carucciani come simbolo dello sdegno dei combattenit della grande guerra contro la pochezza dell’Italia ufficiale, incapace – a suo dire – di difendere gli interessi italiani a Versailles.
E c’era la critica amara che al Risorgimento e al suo tradimento veniva da grandi scrittori meridionali: il tardo Federico De Roberto de L’imperio, ormai vicino alle testi del nazionalismo e duramente polemico nei confronti di un parlamento descritto come malattia mortale e putrescente, o il Pirandello de I vecchi e i giovani , deluso dalla corruzione e dalle trame della politica romana.
Poi furono le riviste fiorentine, «violentemente antigiolittiane; di spiriti classisti e antisocialisti; esaltatrici del nazionalismo, del colonialismo, più tardi dell’interventismo; irrazionaliste in filosofia; propugnatrici di un attivismo fermentante di echi nicciani e stirneriani; celebratrici della guerra» (Petronio), e naturalmente il nazionalismo che vagheggiava una patria altra, più grande, più forte, che affondava le sue radici nella grandezza di Roma antica il cui impero legittimava appunto le ambizioni di una patria che non poteva essere rappresentata dal giolittismo.
A me pare che le radici dell’impresa fiumana vadano colte in questo eclettico mondo dell’antiparlamentarismo antiliberale, un anti-stato confuso che privilegiava l’azione al ragionamento, lo scontro alla mediazione, un mondo composito per il quale Salvatore Lupo, riprendendo Hannah Arendt, ha potuto parlare di radicalismo:
Il radicale si definisce non tanto per il contenuto quanto per la forma dell’agire politico; crede, cioè vuole fortemente, lotta per un futuro che tanto sarà migliore quanto sarà distante dal presente, disprezza il compromesso con il vecchio mondo, nega alla radice le ragioni altrui, carica l’idea dello scontro frontale (tra le idee, tra le classi, tra le nazioni) di un contenuto pedagogico, lo ritiene cioè l’unico strumento adatto a far «crescere» gli individui e le collettività.
Gran parte di questo mondo radicale si sarebbe ritrovato a Fiume, nel nome di una patria i cui contorni e i cui significati dovremo ora cercare di definire.
Davanti a quelle che questa minoranza avvertiva come le esigenze supreme della Patria, una patria evidentemente ideale, diversa da quella che aveva celebrato il 50° anniversario dell’unificazione, non era più il tempo delle parole … e tuttavia furono le parole a giocare un ruolo importante, guarda caso proprio attraverso la voce di Gabriele D’Annunzio.
Fu il D’Annunzio delle radiose giornate, dei giuramenti, nell’Italia dei cortei e degli scontri di piazza … in una parola, l’Italia all’immediata vigilia dell’entrata nella Grande guerra; se c’è infatti un momento della storia italiana nel quale si aggregano forze di ispirazione diversa ma concordi nel reclamare l’entrata in guerra del paese, questo è proprio il periodo della lotta per l’intervento. «Noi non lasceremo disonorare l’Italia – proclamava D’Annunzio –; non lasceremo la patria perire … Quel che è necessario, si compia! La integrazione della patria si compia! La resurrezione della patria si compia!». È evidente che se la patria doveva risuscitare, essa giaceva morta per la «viltà, il tradimento, paura, miseria e contagio d’uomini e di cose … Voi volete un’Italia più grande non per acquisto ma per conquisto, non a misura di vergogna ma a prezzo di sangue e di gloria!». (La sagra dei mille, parole dette al popolo di Genova nella sera del ritorno, 4 maggio 1915). «Non per acquisto», e dunque non attraverso le trattative diplomatiche che si andavano allora febbrilmente svolgendo e che avrebbero potuto portare al paese acquisti territoriali significativi, risparmiandogli una prova che si sarebbe rivelata atroce. Non, dunque l’Italia della politica, ed è significativa l’accezione negativa che veniva suggerita per questa parola, ma l’Italia del «conquisto», ovvero l’Italia dell’azione militare. C’è, in questo, qualcosa di diverso da ciò che muoverà i legionari e quanti si ritrovarono a Fiume a partire dal settembre 1919?
Un’Italia più grande, appunto, da riscattare con il sangue e con la gloria: un’Italia, diremo così, apparentemente super partes, in cui potesse identificarsi la comunità dei migliori, i patriotti autentici disposti a morire per essa.
Non meno significativo il famoso discorso di Quarto, l’Orazione per la sagra dei Mille (5 maggio 1915). Il poeta la aprì con la mistica invocazione dei vivi e dei morti – un altro motivo che sarà abbondantemente ripreso nelle orazioni fiumane –, che «tornanti pel Tirreno, dai sepolcreti di Sicilia … diranno: “Lode a Dio! Gli Italiani hanno riacceso il fuoco su l’ara d’Italia», fuoco che avrebbe dovuto divampare nel cielo dell’«Alpe d’Oriente». E a proposito di richiami al sacro e al linguaggio del cristianesimo, altro timbro che sarà appunto largamente ripreso da D’Annunzio nelle giornate fiumane, è emblematica la celebre chiusa del discorso, che non mi sembra davvero fuori luogo definire quanto meno blasfema…
O beati quelli che più hanno, perché più potranno dare, più potranno ardere. Beati quelli che hanno vent’anni, una mente casta, un corpo temprato, una madre animosa. Beati quelli che, aspettando e confidando, non dissiparono la loro forza ma la custodirono nella disciplina del guerriero. Beati quelli che disdegnarono gli amori sterili per esser vergini a questo primo e ultimo amore. Beati quelli che, avendo nel petto un odio radicato se lo strapperanno con le lor proprie mani; e poi afferiranno la loro offerta. Beati quelli che, avendo ieri gridato contro l’evento, accetteranno l’alta necessità e non più vorranno essere gli ultimi ma i primi. Beati i giovani che sono affamati e assetati di gloria, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché avranno da tergere un sangue splendente, da bendare un raggiante dolore. Beati i puri di cuore, beati i ritornanti con le vittorie, perché vedranno il viso novello di Roma, la fronte ricoronata di Dante, la bellezza trionfale d’Italia.
Non ci potrebbe essere davvero un rovesciamento più radicale e devastante di quello compiuto qui da D’Annunzio: le beatitudini di Gesù Cristo, ispirate alla mitezza, alla pace e all’amore, sono piegate per costruire una civiltà della guerra e dell’odio.
Non è certo questo il luogo per ripercorrere tutta la vasta fenomenologia dell’oratoria dannunziana, ma vale la pena di sottolineare come le basi per il bagaglio lessicale, mitologico e simbolico che sarà da lui utilizzato a Fiume era già stato largamente gettato nel periodo della sua battaglia per l’intervento – battaglia, si badi, non del tutto spontanea, se è vero che il vate poté rientrare in Italia appunto in quell’occasione, dopo essersene allontanato per i debiti contratti.
Ai cenni, ai contenuti e allo stile dell’orazione dei Mille vanno aggiunte alcune considerazioni sullo scenario che per quell’incontro era stato creato, nel quale è possibile rintracciare con chiarezza i prodromi delle manifestazioni fiumane. Ha scritto su questo Antonio Gibelli:
La mobilitazione di massa che accompagnò la manifestazione, la preparazione meticolosa del suo copione, l’utilizzazione in quel contesto della voce più moderna dell’oratoria politica, quella del poeta D’Annunzio, la saldatura tra memoria risorgimentale e ambizioni espansionistiche, tra interessi economici emergenti e coinvolgimento popolare che si realizzò in quella occasione: tutto questo fa della celebrazione genovese del 5 maggio 1915 una sorta di prova generale, di modello e di anticipazione delle dinamiche di «nazionalizzazione delle masse» che dovevano cominciare ad affermarsi con la guerra. Fu insomma una parata della «nuova Italia» il cui avvento e la cui affermazione erano preconizzati dalle forze del nazionalismo variamente connotato.
A questo si aggiunga che la partecipazione alla manifestazione vide il concorso di 20.000 persone, che aumentò durante il suo svolgimento; bande musicali suonavano l’inno di Mameli (!) e quello di Garibaldi, le delegazioni della associazioni erano precedute dai propri stendardi e gagliardetti, «corone di fiori rossi che componevano le scritte Trento e Trieste furono disposte lungo tutto il percorso». Si pensò perfino a come far valere al meglio l’acustica del luogo, mentre a turno un coro di mille uomini avrebbe intonato l’inno di Mameli.
La galassia interventista, lo abbiamo già ricordato, fu una galassia composita, in cui potevano convivere socialisti rivoluzionari, mazziniani, monarchici, nazionalisti … qualcosa di simile a ciò che sarebbe stata l’avventura fiumana (più simile a quella che non al movimento del 1968!):
tutto ciò entrava in rotta di collisione con la vecchia Italia prudente e appartata che la classe dirigente liberale aveva forgiato e che ora sembrava attardarsi colpevolmente di fronte alla grande prova che attendeva il paese. D’Annunzio contribuì in tal modo a creare le armi ideologiche e retoriche che sarebbero servite a travolgere quel mondo, portando al crollo dello stato liberale.
E mi pare che questo giudizio lapidario sia quanto mai utile a capire quale fu l’esito effettivo dell’avventura fiumana, della quale vanno appunto colti i molti legami con le esperienze degli anni precedenti, al di là di quelle che ne furono le molte e diverse sfaccettature.
Va da sé che le diverse componenti di questo mito della patria – qualunque essa fosse – dovettero misurarsi con la realtà di una guerra le cui caratteristiche ben poco spazio lasciarono all’ideale… Eppure anche per questo, proprio per questo, il conflitto fu determinante per la costruzione di una «mistica della patria».
Già durante la guerra, uno spazio preponderante lo ebbe il culto del soldato caduto, di cui D’Annunzio a Fiume avrebbe fatto sapientemente uso. Per alimentarlo – ed alimentare gli ideali patriottici e l’idea dell’italianità delle terre irredente e dei suoi figli – fu largamente utilizzata anche la figura del volontario irredento caduto. Basterebbe ricordare la centralità, nella mitologia ma anche nella guerra di propaganda, che ebbero le figure di Cesare Battisti e Fabio Filzi (i martiri del Trentino!), Nazario Sauro (martire della Venezia Giulia), Francesco Rismondo (martire della Dalmazia). Le modalità con cui a Roma furono ricordati Cesare Battisti, prima, Nazario Sauro poi costituiscono una interessante anticipazione sia di riti fiumani che di quelli proprio del fascismo. La sera del 21 aprile 1917, alla presenza di 10.000 persone,
fu accesa su l’ara del martire eroe (si tratta del capodistriano Nazario Sauro; N.d.R.) una fiamma che non morrà. Per accendere quella fiamma parve che tutta Roma, come degno era di Lei e di Lui, volesse portare il fuoco; parve che ogni cittadino romano volesse portare il suo cuore vampante su l’Altare del navarca temerario, del patriota ardente, della vittima purissima, affinché più vasta fosse la fiamma e più inestinguibile.
Orazioni, fiaccolate, ritualità dalla forte connotazione coreografica, contribuivano a creare in quanti a quelle manifestazioni partecipavano un senso di comunione, di unità mistica che trovava la sua ragione ultima nella patria, per il bene della quale altri non aveva esitato a dare la propria vita imponendosi un esempio da seguire.
Nel primo dopoguerra, proprio le celebrazioni in onore dei caduti fecero generosamente leva su questi aspetti irrazionali e sulla psicologia di massa.
A Fiume
Il secondo momento in cui D’Annunzio si ripresentò all’opinione pubblica nazionale fu quello delle polemiche esplose al tavolo delle trattative di pace in merito alla questione adriatica. Per sostenere la causa di una «più grande Italia», in opposizione alle posizioni espresse dal presidente americano Wilson, egli fece nuovamente ed esplicitamente ricorso al bagaglio di simboli, miti e riti utilizzato durante la lotta per l’intervento, attraverso articoli di giornale e orazioni pubbliche.
Si susseguirono allora vari colpi di scena, specie quando la delegazione italiana abbandonò il tavolo delle trattative. Da parte sua, D’Annunzio fu particolarmente attivo nella propaganda nazionalista, e si batté per il conseguimento di ampli compensi territoriali per l’Italia nell’Adriatico che avrebbero dovuto includere Fiume e la Dalmazia.
Già autore della famosa espressione della «Vittoria mutilata», nei mesi che precedettero l’avventura fiumana il poeta fu molto impegnato nell’edificazione del mito della Dalmazia, dell’Adriatico Mare nostrum (già al centro della propaganda nazionalista durante la guerra: es. gli articoli di Tommaso Sillani), nella rivendicazione dell’italianità di quelle terre, attraverso l’esaltazione dell’eredità veneziana, condita da continui richiami alla latinità e alla romanità. Condita anche, purtroppo, di espliciti atteggiamenti razzistici nei confronti in particolare delle popolazioni croate, che di volta in volta vengono definite «accozzaglie di Schiavi meridionali che sotto la maschera della giovine libertà e sotto un nome bastardo mal nasconde il vecchio ceffo odioso»; «croato lurido ... scimmia in furia» e quant’altro.
Egli proseguì così nella definizione di una mistica patriottica, costruita sulla valorizzazione di simboli (in particolare la bandiera) e di espliciti riferimenti religiosi, che peraltro cozzano decisamente con gli esempi di linguaggio tutt’altro che religioso cui si è appena fatto riferimento: «Stiamo noi fisi al Santo Volto, al volto divino della Patria, che è tuttora coronato di spine, che è tuttora lordato di polvere, che è tuttora rigato di sudore e di sangue. È il solo volto che splende» (Gli ultimi saranno i primi. Discorso al popolo di Roma nell’Augusteo, 4 maggio 1919).
Del resto proprio nella ricordata Lettera ai Dalmati, pubblicata tra il 14 e il 15 gennaio 1919 sulla «Gazzetta di Venezia», sull'«Idea nazionale» e sul «Popolo d'Italia», egli aveva potuto esplicitamente affermare: «Abbiamo combattuto per la più grande Italia. Vogliamo l’Italia più grande. Dico che abbiamo preparato lo spazio mistico per la sua apparizione ideale»... riferendosi appunto alle terre adriatiche!
Nel testo, veramente esplicativo dell’ideologia dannunziana e del suo nazionalismo estetizzante, si incontrano davvero i cardini di quella che sarà la retorica fiumana: l’idoleggiamento della più grande Italia, che non poteva rinunciare alle terre di Dalmazia; il mito della nazione grande e l’immagine hobbesiana della «nazione leonessa della nazione»; il mito dei caduti che reclamano il diritto dell’Italia ai giusti compensi per i sacrifici compiuti; il mito della «pace romana» e, appunto della «più grande Italia». Al fondo, l’esaltazione dell’eredità veneziana della Dalmazia, l’esaltazione della Dominante e delle sue bandiere, sepolte ma pronte a essere nuovamente spiegate per affermare l’italianità di terre che ora, altre nazioni e una classe politica imbelle volevano negare al paese: «per questa divina Patria abbiamo combattuto. Per questa vogliamo ricombattere. E chi si rammaricò di non averle dato la vita, oggi si rallegra di potere ancor gettare nella battaglia nazionale quanto gli resta».
Un’altra anticipazione di ciò che sarebbe stato il D’Annunzio fiumana lo si ebbe a Venezia, il 25 aprile 1919. In risposta alle affermazioni di Wilson sul non riconoscimento del Patto di Londra e contro l’atteggiamento della diplomazia italiana, egli pronunciò un discorso pubblico instaurando con gli uditori il particolare tipo di rapporto che a Fiume sarebbe stato innalzato a norma. Oltre al richiamo alla bandiera e alla sua simbologia, D’Annunzio poté consacrare la lotta per la quale intendeva battersi nel ricordo degli splendori della Serenissima e in quello dei morti della Grande guerra:
Oggi su tutte le porte marine delle città dalmatiche, su tutte le mura dell’ardentissima Fiume, è il Libro chiuso (il Vangelo di S. Marco, in segno di pace; N.d.R.). Se lo riapriremo, lo riapriremo alla pagina dov’è scritto col sangue del Montello, col sangue di Vittorio Veneto, come sopra la porta di Rovigno: VICTORIA TIBI, MARCE, VICTORIA TIBI INTEGRA ITALIA. […] Una sola domanda è da rivolgere a questa Italia ingrigita in una notte come quei vasti fiori che scoppiano nella notte con una violenta magnificenza. Per difendere il tuo diritto e per preservare il patto dei tuoi morti, sei pronta a combattere?
…dove è importante sottolineare, tra le molte cose, proprio il particolare tipo di rapporto instaurato dall’autore con il suo uditorio, basato su una serie di domande retoriche la risposta alle quali non poteva che essere una sola. E a proposito di concezione mistica e religiosa del proprio ruolo, l’8 giugno 1919 ebbe a scrivere:
«Soffiò loro nel viso, e disse loro: Ricevete lo spirito». Questa è la parola del vangelo di Giovanni. Fiume oggi soffia nel viso di tutti noi italiani, ci avvampa il viso col suo soffio, e ci dice: Ricevete lo Spirito, ricevete la Fiamma: […] Celebriamo oggi, nella gloria di Fiume e nella gloria di quel giovine leone d’Italia, la festa dello Spirito. […] È la città olocausta, la città del sacrificio totale, la rocca del consumato amore: quella che riempie di fuoco le occhiaie bianche di tutti i nostri morti marini radunati nel Carnaro a mirarla e bearsi.
Così, mentre varie iniziative più o meno segrete andavano profilandosi per un colpo di mano su Fiume, la propaganda dannunziana preparava il terreno all’impresa imminente.
Deposito, teatro e luogo in cui confluirono tutte queste contraddizioni, ed in primis quelle della linea eversiva che attraversava la storia del paese in quel primo scorcio del Novecento, ma anche tutto il bagaglio mitologico, simbolico, retorico di cui si erano avvalsi D’Annunzio e il discorso patriottico sulla Grande guerra, fu la Fiume occupata dalle truppe del poeta dal settembre 1919 fino al cosiddetto «Natale di sangue» del 1920. L’eclettismo dell’esperienza fiumana, che più volte abbiamo sottolineato e che va rapportato all’esperienza del fronte interventista, la diversità dei personaggi e dei gruppi politici che vi furono coinvolti sono a mio avviso il frutto di diverse questioni aperte e non risolte dal conflitto, tra le quali sottolineerei:
a. Lo smarrimento delle coscienze successivo alla Grande guerra, la consuetudine alla violenza come strumento di lotta politica, il valore assunto dal combattentismo (anche questo peraltro, movimento dai volti diversi) e dal suo mito;
b. la volubilità estrema della classe intellettuale italiana di quel periodo;
c. la funzionalità di una concezione mistica della patria capace di sublimare le differenze in un concetto astratto e mitopoietico almeno all’apparenza capace di presentarsi quale valore universale, ma in realtà fortemente discriminante.
Terreno d’intesa dell’ideologia del fiumanesimo è proprio una visione largamente misticheggiante della patria, intesa come insieme di spiriti pronti a sacrificare anche la vita per essa, in comunione con i caduti della Grande guerra, padri spirituali – o meglio fratelli maggiori – dei nuovi combattenti per la più grande Italia: quella che – ricordiamolo ancora una volta – ambiva alla conquista della dignità nazionale attraverso l’azione, scavalcando i meccanismi della politica e della diplomazia.
Si rinnovò così la situazione del radioso maggio, quando la volontà di entrare in guerra fece superare a personaggi e culture politiche diverse ciò che li separava. Certo, ciò che ora le univa era, sul piano politico il fastidio e il rifiuto per il parlamento, per l’Italia liberale, per i suoi legittimi rappresentanti, un rifiuto ammantato di nobili idealità nel nome sublime della patria del Carso e del Piave: la patria dei sacrifici, delle trincee, dei caduti. Che tale operazione avesse una forte connotazione ideologica è cosa che non può sfuggire, ma le modalità in cui tale ideologia si manifestò furono tali da attirare componenti le più diverse: dall’anarchismo, dal mazzinianesimo repubblicano e sinceramente democratico, quando già non coerentemente antifascista (Ercole Miani!), al nazionalismo, al fascismo. In questo senso, si tratta di un caso tipico di quel
processo di appropriazione monopolistica del mito nazionale da parte di un movimento politico, che definisce la nazione in maniera esclusiva, secondo la propria ideologia, riconoscendo solo a chi condivide questa ideologia il diritto di essere parte della nazione, e pretendendo nello stesso tempo di essere l’unico interprete e l’esecutore legittimo della sua volontà. (E. Gentile)
«Fiume è d’Italia – dirà infatti D’Annunzio – ma di un’altra Italia»…
Ad alimentare quel mito, un’altra caratteristica dell’impresa fiumana fu l’esaltazione della giovinezza, tanto da parte di D’Annunzio – che in verità tanto giovane all’epoca non lo era più – quanto dai futuristi e dagli altri artisti-avventurieri d’avanguardia che vi accorsero: «La rivolta capeggiata da D’Annunzio – ha scritto Michael Ledeen – era diretta contro il vecchio ordine esistente nell’Europa occidentale, e fu attuata in nome della creatività e della virilità giovanili che si sperava avrebbero dato vita a un mondo modellato sull’immagine dei suoi creatori». Non a caso il poeta, in uno dei suoi interventi fiumani, avrebbe potuto parlare di «giovinezza creatrice della nazione», riferendosi al soldato vittorioso, vera coscienza della nazione libera (22.9.).
La rivolta di un mondo giovane contro il vecchio aveva del resto connotato anche l’esperienza del volontariato della Grande guerra, nonché in generale l’esperienza dei volontari (garibaldini inclusi); Giovinezza era divenuto l’inno degli arditi che a Fiume accorsero numerosi, andando ad alimentare corposamente le fila dei legionari. Ed è soprattutto in questo senso che va interpretato tale processo: era il mito di una patria giovane che si riuniva per liberarsi dal grigiore opaco della vecchia classe dirigente del paese. A scorrere gli elenchi dei Legionari triestini, goriziani e istriani arruolati nel Battaglione Volontari Venezia Giulia in Fiume d’Italia, compilato da Ercole Miani balza agli occhi il grande numero dei giovanissimi (le classi dal 1900 in su, ovvero di quanti per ragioni anagrafiche erano rimasti esclusi dalla grande prova della guerra); gli altri, per lo più, erano uomini di giovane età, nati nell’ultimo decennio dell’Ottocento.
Anche il Risorgimento era stato un fenomeno giovanile ed eversivo, ma di un’eversione che intendeva colpire degli Stati non sentiti come propri, avvertiti come ostacoli alla libertà e alla costruzione di uno Stato e di una patria comune per tutti gli italiani; la generazione fiumana – se in questi termini se ne può parlare e forse la definizione è eccessiva, dato che non si trattò di un fenomeno di massa, ma di un fenomeno numericamente limitato – fu giovane sì, ma anche doppiamente eversiva: in nome di una Patria altra, che non coincideva con le istituzioni dello Stato liberale italiano, sentite come freno inibitore del dispiegamento delle energie della giovane nazione italiana, si coltivava il culto di una patria astratta, largamente idealizzata e dai contorni decisamente ambigui. Così, «alla giovinezza incorruttibile d’Italia» si rivolgerà D’Annunzio a Fiume, invocando il delitto di lesa patria che vi si andava commettendo da parte dell’Italia «di Caporetto» …
A cogliere lucidamente questo lato del problema, proprio in relazione all’esperienza risorgimentale, fu lo storico e giornalista Guglielmo Ferrero, soffermandosi sullo
spirito rivoluzionario che muove ed arma la spedizione di Fiume. Quale differenza dal 1860! I Mille partirono, perché il Piemonte non poteva affrontare a viso aperto l’Europa, dichiarando la guerra al Re di Napoli. Ed erano tutti … privati cittadini, liberi da ogni altro impegno e dovere. La spedizione di Fiume si è mossa, allegando che il governo non vuole e non sa difendere i diritti dell’Italia; e si compone – già l’abbiamo visto – di frammenti dell’esercito che hanno cessato di obbedire alla legge
…proprio quell’esercito che era stato uno dei cardini della pedagogia patriottica dello Stato liberale! In quanto alla partecipazione dei giovani Ferrero aggiungeva:
Che a molti giovani Fiume sia apparsa come una nuova Gerusalemme da liberare per liberare con essa l’Europa tutta, non fa meraviglia; e nessuno vorrà essere con loro troppo severo. La gioventù si immagina facilmente di compiere gesta eroiche e generose, solo perché lo desidera. Ma si può attribuire la stessa illusione a coloro, che prepararono e guidarono l’impresa?
Emblematico di questa mentalità e delle illusioni cui faceva riferimento Ferrero, è un brano tratto dal romanzo di impianto futurista Trillirì (Fiume 1920, Milano 1921) di Mario Carli. Secondo Carli,
l’affermazione decisiva di una minoranza eroica e consapevole, che scavalcava le volontà gelatinose dei governanti per obbedire solo all’ordine di una Patria che parlava, al di sopra dei suoi indegni rappresentanti, ai pochi fedeli che l’intendevano; una brusca rottura dei vecchi vincoli disciplinari, tenuti saldi solo dalla paura del castigo e dall’orrore delle responsabilità, per iniziare invece la nuova disciplina dello spirito, la nuova gerarchia del valore personale, senza ingombri di burocrazia e con un soffio di vitalità giovane; uno spiraglio aperto sull’avvenire d’Italia, che poteva maturarsi solo in un terreno di ribellione appassionata contro la vecchia mentalità d’anteguerra. Piaceva soprattutto al suo gusto di artista il fatto specifico che un artista, un grande poeta, fosse a capo dell’impresa, e che quest’impresa fosse una specie di rivincita dello spirito d’avventura, irregolare, irrequieto, insofferente di dogmi, spacciatore di divieti e di luoghi comuni, sullo spirito pedantemente legalitario dei grossi fessi ufficiali, loricati dalle vecchie leggi e dalle decorazioni luccicanti d’inutilità.
La parole di Mario Carli, futurista e legionario fiumano, che lasciò Fiume nel giugno 1920 per i suoi dissidi con il fascismo, fondatore poi degli Arditi del popolo in funzione antifascista, sono particolarmente rappresentative di questa concezione sublimata di una patria che non trovava un corrispettivo in quella reale, e ne riassume molte caratteristiche: la comunione tra una minoranza eroica e i fedeli, i pochi in grado di capirli che rimanda in verità al D’Annunzio delle Vergini delle rocce; il vitalismo e il giovanilismo; la rottura costituita dalla Grande guerra di una mentalità non più proponibile; l’estetismo; il disprezzo per luoghi comuni e convenzioni; la forte attrazione per la personalità di D’Annunzio.
In quanto alla fascinazione per il poeta-condottiero, non meno interessante è quanto si può leggere in un libello di Umberto Foscanelli (1923):
La forma di vincolo che ha preso «il legionario» verso «il suo Comandante» ha dello spirituale, e del magnetico; è fatta di una forma interiore e di dedizione perfetta. Il Comandante ha in sé il fascino del dominatore. Anche quando parla in umiltà. Anzi; è proprio allora che maggiormente si manifesta la sua immensa forza magnetica. La sua presenza è istantaneo dominio dello spirito; la sua parola è un annullamento delle volontà. Questo non solo per i legionarii, che con lui hanno fatto l’ingresso trionfale nella città sacra la domenica degli ulivi, nel settembre 1919, e con lui hanno salito il Calvario nell’altra settimana di passione, del decembre 1920, ma per tutti coloro che la volontà o il caso li ha portati a vicini a questo aristocratico dionisiaco, tutto pieno di misticismo; a questo panteista cristiano; a questo Prometeo pieno di sdegno e di amore.
Risuona in queste parole la dimensione religiosa – ma ideologicamente religiosa – del legame intercorrente tra D’Annunzio e i suoi seguaci, rimarcata anche dal parallelismo tra le vicende fiumane e quella di Cristo, narrata dai Vangeli (come si vede il riferimento di Ferrero a una nuova Gerusalemme non era casuale!). L’entrata a Fiume, la Santa entrata, vi viene paragonata alla Domenica delle palme, il Natale di sangue alla Passione, al Calvario mentre l’ultima mensa celebrata a Fiume viene inevitabilmente paragonata (ahinoi) all’ultima cena. Anche sotto questo profilo, oltre a dover constatare come la «religione della patria» fosse ormai degenerata in idolatria e culto della personalità, il paragone tra esperienza fiumana e esperienza terrena di Gesù non era cosa nuova. Tanto la pubblicistica e l’iconografia del tempo di guerra, quanto la memorialistica relativa alla Grande guerra avevano fatto largo ricorso al confronto tra le condizioni dei fanti nelle trincee del Carso, o a quelle dei soldati impegnati sulle balze alpine, con l’esistenza terrena del Cristo e in particolare con la sua Passione. Un confronto che il culto del soldato caduto, con l’elevazione a martiri e santi dei soldati morti aveva inevitabilmente accentuato. Qui, peraltro, assistiamo a qualcosa di più: D’Annunzio vi appare come nuovo messia della patria, e i legionari come suoi apostoli. Di questi scriveva infatti Foscanelli «i legionari quelli toccati dalla grazia, gli eletti; quelli che credettero; quelli che, in purità di cuore, si comunicarono a l’ultima cena di Fiume, e lasciato il fardello delle loro miserie, presero le vie dell’Italia, con la missione dell’apostolato…».
Un’eucarestia unisce dunque i discepoli di D’Annunzio, che dopo il sacrificio della città santa, della città olocausta, per usare un’espressione coniata dal vate, si disperdono per il mondo, conservando però la fede negli ideali che loro erano stati trasmessi attraverso le sue parole. Non ci può essere un’interpretazione più «mistica» di quell’esperienza, ma nemmeno una veste ideologica più greve di questa. Essa tuttavia, lo ribadisco ancora una volta, va letta e interpretata non alla luce della nostra cultura di oggi o della nostra sensibilità personale, ma della mentalità che si era forgiata in quel torno di anni (Mazzini sarebbe stato definito da Giovanni Gentile «apostolo della nazione»): una mentalità aperta al discorso patriottico, dalla sensibilità resa ancora più acuta dalla Grande guerra, dai suoi sacrifici e dai suoi molti lutti e dal mito che intorno a questi era stato elevato.
Accanto alla testimonianza di Foscanelli, interessante per capire che cosa potesse rappresentare allora D’Annunzio, una testimonianza di Badoglio, in una relazione destinata al presidente del Consiglio, al ministro della Guerra, al capo di Stato Maggiore e al primi aiutante del re, datata 15 settembre, e successivamente ampliata:
D’Annunzio è per tutti l’idolo, il nuovo Garibaldi; Trieste è oggi tutta imbandierata come nel giorno della sua liberazione. Com’è valutato l’atto di D’Annunzio nell’esercito? I soldati e i giovani ufficiali erano e sono abituati a considerare il D’Annunzio come l’araldo dell’Italia. Il Governo italiano non se n’è sempre servito in tal senso dal discorso di Quarto in poi?
Come si vede, Badoglio sapeva perfettamente che le componenti della politica italiana che avevano premuto per l’intervento avevano utilizzato il personaggio D’Annunzio e la sua abilità oratori. alo stesso modo, egli individuava benissimo nel discorso di Quarto un momento fondamentale per la costruzione del personaggio. Ma leggiamo ancora:
La proclamazione fatta in Fiume è giudicata come la continuazione di quella fatta a Roma, consenziente il Governo, sull’Altare della Patria. L’ascendente di lui è tale che basta una sua parola per decidere una situazione [Ricordate quanto si è detto all’inizio sull’importanza delle parole]. Ciò è provato dal fatto che la brigata Regina, nuova del’ambiente fiumano, dopo poche oscillazioni, si dichiarò subito per lui, al pari del battaglione del 73°, anch’esso nuovo dell’ambiente.
A riprendere motivi analoghi è Giuseppe Pagano (al secolo Giuseppe Pogatschnigg), parentino, già volontario irredento di guerra e quindi legionario a Fiume, in un’orazione, I fanti e Giovanni Randaccio, pronunciata l’11 novembre 1919 al «Casino patriottico davanti al Comandante D’Annunzio ed a tutti gli ufficiali di Fanteria dell’Esercito italiano in Fiume d’Italia» (ed. La Vedetta d’Italia, Fiume 1919). Il breve testo, non brilla né per originalità né per fluidità ed è anzi disseminato di tutti i luoghi comuni che andavano addensandosi sul mito della Grande guerra; la sua importanza risiede però in altre ragioni; esso testimonia infatti del diffondersi di alcune precise convinzioni, a partire dalla sacralizzazione dell’esperienza bellica e della sacralizzazione dell’impresa di Fiume, viste nel loro vincolo: un vincolo formato dal sangue e dalla comunione dei vivi e dei morti:
Giovanni Randaccio non è più nella sua tomba di Aquileia. I nostri morti non sono più nei cimiteri squallidi del Carso. I nostri morti non sono più nelle candide macerie dell’ossame insepolto. I nostri morti non s’avvoltolano più nell’alveo minaccioso della Piave. – avevo preannunciato che lo stile non è dei più fluidi! – I nostri morti sono qua a gioire della nostra gioia, a temprare la nostra tempra, ad operare la nostra opera (sic!). Io sento che la bandiera di Fiume è indissolubilmente legata al nostro tricolore. È forse la mano calda e insanguinata di Giovanni Randaccio, fante, che stringe più stretto questo nodo tenacissimo.
Davvero non è difficile cogliere nelle parole del volontario istriano un senso mistico dell’esperienza che andava dipanandosi a Fiume, per il quale la vita e la morte si fondono in un corpo solo nella rinnovata esperienza della difesa della patria, simboleggiata dalla bandiera. Un culto, quest’ultimo che era allora fenomeno generalizzato e che D’Annunzio utilizzò a più riprese, utilizzando come vedremo proprio la bandiera che aveva avvolto il corpo di Randaccio per «consacrare» la sua nuova impresa.
…ma quella patria è fatta anche di azione, un’idea che non si può capire se non mettendo in relazione quell’agire – basato su metodi in verità piuttosto spicci – a uno dei frutti peggiori della partecipazione alla Grande guerra, ovvero la consuetudine con la violenza: per capirlo sono emblematici alcuni cenni tratti da una memoria autobiografica di Ercole Miani, già eroe di guerra, pluridecorato, e comunque legionario fiumano nonché antifascista della primissima ora (fu proprio a Fiume che si rivelò questa componente della sua figura, futuro protagonista del CLN di Trieste). Il contributo di sangue dato dalle terre irredente alla Vittoria, legittimava a suo parere quell’esperienza determinata, almeno per quanto lo riguardava, dall’ingiustizia che si andava commettendo a Versailles; si assegnavano infatti all’Italia «vaste zone abitate da popolazioni non italiane ed escludendo invece una comunità italiana quale quella di Fiume, che si era conservata tale attraverso dure lotte contro gli stranieri e che aveva dato, con i suoi volontari nell’esercito italiano, un rilevante contributo di sangue e di sacrifici». Se da una parte troviamo in queste righe il riferimento ai diritti di tutti i popoli, di ispirazione mazziniana, non vi manca nemmeno un riferimento al sangue, che aveva consacrato il diritto all’Italia di quelle terre.
Componenti del discorso dannunziano
Centrale fu dunque, nello scenario fiumano, il discorso patriottico dannunziano, di cui cercheremo di cogliere alcune componenti, per trarne delle conclusioni.
Nella giornata stessa in cui le milizie capeggiate dal poeta, circa 2500 uomini tra granatieri, artiglieri, arditi e fanti, oltre ad autocarri, autoblinde, erano entrate a Fiume, egli pronunciò un discorso (La prima voce dell’arengo, 12.9.1919), al centro del quale pose se stesso, e il rapporto che intendeva instaurare con la città: Fiume rappresentava il suo «focolare … altare … tumulo», la sua intera esistenza: dal suo antenato che vi giunse dalle coste dell’Abruzzo, a lui stesso che vi era andato per la lettura di un poema (più precisamente, nel 1907 vi si era recato per leggere alcune parti del suo poema La nave) e quindi, soprattutto, in occasione della beffa di Buccari, quando «il Quarnero austriaco divenne il Carnaro italiano … e da quella notte prese principio l’impresa italiana di Fiume». Cioè a dire, il compimento della Grande guerra si sarebbe avuto soltanto con l’annessione all’Italia della città. Dunque:
Ecco l’uomo; che tutto ha abbandonato di sé e tutto ha dimenticato di sé per esser libero e nuovo al servigio della Causa bella, della Causa vostra: la più bella nel mondo e l’eccelsa, per un combattente che in tanta bassezza e in tanta tristezza cerchi ancora una ragione di vivere e di credere, di donarsi e di morire.
«Ecco l’uomo», parole che avevamo già in precedenza sottolineato come chiave d’accesso nella particolare strategia comunicativa dannunziana. Già M. Ledeen aveva notato questa sottolineatura della contrapposizione tra la causa bella di Fiume e un mondo di bassezza e tristezza. Intanto un appunto su questo culto della bellezza… che pronunciato da un poeta che dell’estetismo aveva fatto un ideale superiore di vita, contrapposto al «grigio diluvio democratico» (Il piacere), si tingeva di ulteriori significati; inoltre, siamo alla supervalutazione di un io che si impone al mondo circostante, con la propria personalità, la propria esperienza, la vita stessa offerta, appunto, in sacrificio per essa. E sono parole che ci rimandano al superomismo dannunziano, alla sua idea dell’eroe. «... Io prendo sopra di me ogni accusa, ogni colpa e me ne glorio», nuovo agnello sacrificale, disposto a dare la propria vita per la salvezza dell’Italia o, meglio, di questa idea di patria e di Italia che lui stesso aveva elaborato e alla quale i discorsi fiumani continuavano ad attribuire nuovi attributi di sacralità. Sacra, e dunque inviolabile la patria: inviolabile nel corpo e dunque nei confini, un corpo che il sacrificio dei suoi figli aveva reso più grande e che ora quanti la governavano non erano in grado di mantenere integro. A dirci quanto grande doveva essere questa patria è il riferimento seguente: la sua Fiume era infatti parte di quelle «martiri ancora senza palma: Zara, Sebenico, Traù, Spalato, Almissa, Ragusa, Cattaro, Perasto». Si ricordi che la palma, il ramoscello, il ramo verde sono universalmente considerati come simboli di vittoria, di ascensione, di rigenerazione e di immortalità: la palma dei martiri, nel’iconografia corrente, non ha un significato diverso. … martiri dunque quelle città, misticamente unite alla patria da un gesto simbolico: lo spiegamento della bandiera che aveva avvolto il corpo di uno dei martiri della patria, Giovanni Randaccio: «Alla Quota 12, alla Cava di pietra, ripiegata servì da guanciale per l’eroe moribondo. A Monfalcone, coprì il suo santo corpo. Ad Aquileia coprì il suo feretro; e i larghi lembi strascicavan per terra sollevando la polvere rifecondata»... Così, in un crescendo di tensione,
cittadini di Fiume, ora spiego il gran Segno. Vi mostro questo sudario del sacrificio, questo indizio fatale del compimento. Sciolgo il voto in Fiume d’Italia. Ora, concittadini e commilitoni, innanzi alla bandiera del Timavo, dov’è rimasta effigiata l’imagine sublime del Fante che vi poggiò la testa, mi riconfermate voi unanimi il plebiscito del 30 ottobre 1918?
Ecco la domanda retorica, la richiesta da parte dell’oratore del consenso del proprio uditorio: «Nel dialogo con la folla, D’Annunzio forgiava la massa dei suoi ascoltatori in una personalità unica, ed essa parlava con lui una sola voce. Quando egli chiese alla folla di pronunciare l’atto di fede, essa rispose con un unico “sì”, e D’Annunzio si attendeva una tale unanimità», ha osservato M. Ledeen.
È precisamente nella costruzione di questa relazione con la folla, con il suo uditorio che si definisce la dannunziana «mistica della patria»: la costruzione cioè di una comunità ideale, unita spiritualmente intorno a una serie
- di miti (Randaccio, il mito del soldato caduto);
- di simboli (la bandiera, la fiamma);
- di luoghi che evocano un passato glorioso (Roma, Venezia);
- di intenti (…) esplicitati attraverso un linguaggio di matrice religiosa dai contorni profetici:
Il Dio di Dante è con noi –dirà in una nuova occasione, il 20 settembre 1919 –. Il Dio degli eroi e di martiri è con noi. È con noi il Dio tremendo e soave che ha i suoi oratorii sul Grappa, sul Montello, nel Carso, che ha le sue mille e mille croci nei cimiteri silenziosi dei fanti, che ha quattordicimila croci in quella terra arsiccia di Ronchi da dove l’altra notte ci partimmo credendo sentire nell’aria l’odore beato del sangue di Guglielmo Oberdan [ricordate quanto abbiamo detto all’inizio del nostro incontro?] misto al fiato leonino dei combattenti di Marsala accorsi. […] Chi può sperare non dico di abbattere ma di flettere questa volontà umana e divina? […] E il Dio nostro faccia che il vento del Carnaro, passando sopra Veglia, sopra Cherso, sopra Lussin, sopra Arbe, sopra ogni isola del nostro arcipelago fedele e giurato, nel natale italico di Roma e di Fiume romana, giunga ad agitare vittoriosamente tutte le bandiere d’Italia.
Compaiono, in poche righe, alcuni del luoghi che alla nuova Italia avrebbero dovuto diventare sacri (alcuni lo divennero effettivamente), i nuovi luoghi della memoria pubblica e, di più, luoghi di questa patria più grande, ricca del recente passato e delle sue conquiste e della rivendicazione di nuovi territori adriatici: il Grappa, il Montello e il Carso, consacrato dalle mille e mille croci dei caduti, sono misticamente unita e Ronchi, e questa a Marsala, e poi il Carnaro, Veglia, Cherso, Lussino e Arbe.
Ancora, va sottolineato l’accenno alla Fiume romana che festeggia i propri natali assieme a Roma, sua madre ideale; accanto a questo, il legame dichiarato dell’esperienza dannunziana nella città della Liburnia con quella dei garibaldini, dei martiri dell’irredentismo (Oberdan) e della Grande guerra. (Il discorso in questione, Nel Natale di Roma venne pronunciato il 20 settembre, per ricordare la presa di Roma da parte dell’esercito sabaudo).
Di forte valore simbolico, e molto presente nell’oratoria dannunziana, anche il tema del sacrificio che completa la liturgia del discorso-rito patriottico; si tratta innanzitutto del sacrificio della città olocausta, che già abbiamo incontrato: città sacrificata dall’anti Italia liberale sul terreno della diplomazia; città che si offre in sacrificio e che offre il sacrificio dei legionari alla patria vera, quella ideale; così, la morte dei due aviatori Aldo Bini e Giovanni Zeppegno, primi caduti a Fiume in un incidente di volo, sarebbe divenuta occasione per porre l’accento su questo tema nonché sul cerchio mistico che univa i morti ai vivi, «i morti marinai radunati nel Carnaro», i due aviatori caduti e i legionari tutti, nella città che essa stessa è sinonimo di sacrificio nelle fiamme purificatrici: «Il loro amore s’è convertito in fuoco durevole, la loro fede s’è convertita in fuoco perpetuo». 1065 «E tenete per fermo che tutti, come questi due arsi confessori della fede, vogliamo per fede morire». 1067 I due sventurati diventano così martiri nel senso etimologico del termine di testimoni della fede patriottica. (7.10.1919) Al centro dell’orazione campeggia pure il tema del fuoco e delle fiamme, che rinnovava l’appello agli arditi: «Arditi d’Italia, venire a voi è come entrare nel fuoco, è come penetrare nella fornace ardente, è come respirare lo spirito della fiamma, senza scottarsi, senza consumarsi. Ardore-ardire è una parola sola, è una sola essenza mistica come Roma-amor » 24.9.1919. Anche questo tema, peraltro, non era nuovo nella poetica dannunziana (da La figlia di Iorio a, ovviamente e più banalmente, Il fuoco!).
Nessun dubbio, pertanto, sulla natura del mandato di D’Annunzio e dei suoi: «Noi abbiamo obbedito all’inspirazione del Dio vivo e vigile» ; salvati sono stati i «fratelli» (ovvero i membri del consiglio nazionale italiano di fiume), grazie alla Provvidenza, e ancora: 1052 «quel che abbiamo fatto sotto l’inspirazione del nostro Dio. … io e i miei compagni abbiamo tutti ubbidito allo spirito e con esso abbiamo sormontato ogni impedimento, ogni miseria. Lo spirito ha compiuto il prodigio. … si conosce ormai la passione di Fiume. Vi sono qui confessori e martiri». 1052-53, santa è la causa di Fiume e i combattenti sono «devoti»… 1045. , se c’era ancora bisogno di una conferma al disinvolto utilizzo di un linguaggio di ascendenza religiosa da parte di D’Annunzio: una, una delle molte, componenti del discorso patriottico dannunziano. Quali fossero poi il Dio e la Provvidenza invocati da D’Annunzio è cosa sulla quale potremmo indagare. (20.9.).
Di sapore religioso, rispondente alla necessità di conferire maggiore solennità al discorso-rito è l’introduzione di una sorta di calendario, basato sulla celebrazione di ricorrenze misurate a partire dalla cosiddetta «santa entrata», oltre che su quelle del calendario civile.
In un altro discorso, rivolto ai propri soldati, «compagni per la vita e per la morte», D’Annunzio riprende l’idea dello spazio mistico della patria, affermando infatti «qui è la Patria». Vi si poteva nuovamente cogliere «gloria, allegrezza – una prerogativa, si ricorda? della giovinezza – affilata volontà». Un discorso che si concluderà con uno dei tanti slogan coniati in quei frangenti (ripreso peraltro dalla tradizione romana): «Qui rimarremo ottimamente».
Come già anticipato, secondo un procedimento tipico del discorso patriottico (non soltanto di quello italiano, anzi: Banti, sul corpo della patria e sulla rappresentazione della stessa come di un corpo femminile, che talora viene violato), il poeta-condottiero fa riferimento a Fiume utilizzando termini come purezza, bellezza, profanazione e violazione, amore fraterno e martirio … Di fronte alle presunte mene corruttrici di Nitti, a Fiume si era concentrata l’Italia vera, quella che «non vive del suo ventre ma della sua idea, non si può salvare secondo la carne, ma secondo lo spirito». D’Annunzio consapevolmente ricerca la comunione mistica con il proprio uditorio attraverso una serie di ammiccamenti: «sento intorno a me tutte le anime riardere»; e i marinai radunati davanti a lui rappresentano il «fiore della nostra razza privilegiata», dove va sottolineato che i riferimenti alla razza erano estranei al discorso patriottico dell’Italia liberale (Gentile) e semmai, riferimenti alla razza furono adoperati in senso denigratorio durante la grande guerra con l’accentuazione dei tratti bestiali del nemico.
A proposito di denigrazione del nemico, un «nemico interno» secondo il termine da lui utilizzato, non è un caso che il basso soddisfacimento dell’appetito venisse imputato a Nitti - Cagoia («mi no penso che per la pansa») e contrapposto allo spirito. Il nomignolo Cagoia fu introdotto in un discorso del 27.9.1919 (Cagoia e le teste di ferro, dove le teste di ferro erano il nucleo più duro degli arditi presenti a Fiume). Anche in questo intervento, viene evidenziata una frattura insanabile: quella tra la patria di Vittorio Veneto (proprio quella che Mussolini di lì a qualche mese Mussolini avrebbe consegnato nelle mani di Vittorio Emanuele III) e un’anti-Italia, un’anti-patria, quella di Caporetto sinonimo di tradimento e, peggio, quella del capo del governo e dei «quaranta voti dei suoi caporettai putrefatti»; non a caso, a Nitti viene imputato proprio di essere un senza patria; una contrapposizione essi-noi, che viene innalzata a metro di valutazione assoluto (sarebbe sin troppo facile, a questo punto, spostare i paragoni Fiume-1968 in avanti, fino a questa Italia dalle molteplici contrapposizioni che appare piuttosto, ahinoi, come una costante della storia nazionale):
in tutte le lotte, dove il sangue è lo splendore mistico della forza, dove la vita intera è posta per pegno, la gloria può essere da entrambe le parti, la gloria può balenare su la fronte dei due avversariii. Perfino sul Grappa, perfino al Piave, ci poteva essere gloria per l’Austriaco pronto a ben combattere e a ben morire. Ma in questa lotta singolarissima la gloria è da una sola parte. E dall’altra parte non è, non può essere se non l’infamia». (una gloria, si badi, «nei secoli dei secoli»!!!)
L’esaltazione della forza, del sangue, il valore relativo attribuito alla vita che deve sempre essere messa alla prova, rientra in una visione nazionalistica e in un’interpretazione di matrice darwiniana, applicata alla lotta tra le nazioni, una lupo dell’altra. Ma non manca in D’Annunzio, e ne costituisce anzi un tratto ricorrente, l’utilizzo di un linguaggio tipico del futurismo di «Lacerba» o di quello teppistico alla Rosai o alla Soffici d’anteguerra, che sarà ripreso pienamente dallo squadrismo. Così come il rituale della commemorazione dei primi due caduti di fiume, di cui già si è detto, invocati dal poeta davanti ai commilitoni schierati anticipa il rituale dell’appello dei «caduti per la rivoluzione fascista».
Al culto e all’esaltazione del soldato caduto, mito centrale del discorso patriottico del primo dopoguerra, D’Annunzio fa costante riferimento e anche nelle opere successive alla conclusione dell’esperienza fiumana, esso avrebbe assunto toni davvero apocalittici (mi riferisco in particolare al Comento meditato a un discorso improvviso).
Quando a cadere fu, e per giunta per mano italiana anzi «fraterna», un legionario fiumano, D’Annunzio ne fece «il più grande confessore della nostra fede»; il martire «deliberato a morire piuttosto che a cedere»; il prescelto dallo spirito di Giovanni Randaccio «per illuminarlo a sua somiglianza, come dei discepoli faceva il Maestro. E l’elezione è perfetta. Luigi Siviero è morto della stessa ferita. La stessa ferita s’è aperta in lui, come nel posseduto dall’amore di Cristo misteriosamente s’apriva la stigmate». 1107 Parole altrettanto misticheggianti le ripeté nella cerimonia di tumulazione del «piccolo fante veneto».
C’è in verità qualcosa di profondamente decadente in questa voluttà della morte: ancora una volta perciò, un’inclinazione già così radicata nella poetica dannunziana, si incontra qui con una dimensione pubblica e ancor più patriottica della morte, sposandosi a una ritualità che nel paese si stava diffondendo e che avrebbe conosciuto il suo apice nella cerimonia del Milite ignoto. L’impresa di Fiume traeva così legittimità e acquisiva un valore sacro proprio dal suo incarnare la Patria, quella dei vivi e quella dei morti (i caduti della Grande guerra):
Qui è la Patria. Qui si respira nuovamente il vento eroico, si ansa nuovamente nella gloria, si ripalpita di allegrezza, si risplende di affilata volontà ... non uscirò di qui vivo e non uscirò di qui morto, perché vorrò avere qui la mia sepoltura e divenire una cosa sola con questa terra benedetta. L’Italia vera ci comanda questa fermezza...
Come un mistico, appunto, il seguace di D’Annunzio non era teso che al perseguimento dell’ideale, all’idea del sacrificio, all’allargamento della comunità di fratelli nella patria (a partire dalla Dalmazia!). Al di là dei palesi riferimenti alla più antica tradizione cristiana (San Paolo, ad esempio, nelle cui lettere più volte ricorre la contrapposizione polemica tra carne e spirito) verrebbe da chiedersi se anche il nostro perseguiva così anacoretici prospettive: a conoscerne le vicende, anche nella stessa Fiume, c’è di che dubitarne! A Fiume, infatti, «città di vita», la vita sessuale fu estremamente libera, così come la pratica omosessuale, la ricorrente organizzazione di feste sfociava non di rado nel Baccanale. Ma è evidente che il discorso dannunziano non si muove sul piano della realtà, ma mira a crearne una artificiosa, radicata in quel tempo e in quel luogo e al tempo stesso ampliata ad altre possibili mete della sua purissima e mistica patria: una realtà di parole che però penetrò nelle coscienze e le plasmò, ponendo a un tempo le basi per un utilizzo mistificante della parola: penso ovviamente all’oratoria di Mussolini.
Allo stesso modo è piuttosto curioso e interessante cercare di capire come questo linguaggio, che evidentemente si basa su un lessico per quanto immaginifico, per quanto innovativo, fosse distante da quello di altri componenti l’impresa fiumana e la sua estetica, come ad esempio quella futurista. Di fatto, la presenza in città di Marinetti fu di breve durata: non vi era posto infatti per due personalità così ingombranti contemporaneamente. Altri si ritagliò una propria nicchia particolare, come ad esempio l’amico e sodale di D’Annunzio Guido Keller, fondatore con Giovanni Comisso di una curiosa associazione di artisti, lo Yoga.
Ma il discorso dannunziano è altrettanto ricco di slogan, di parole d’ordine destinate a fissarsi nella mente dell’uditorio e a trasformarsi in programma: L’Italia è con me, l’Italia è con noi : l’Italia vera, l’Italia (Al colonnello Roncaglia, 14.9.1919); qui rimarremo ottimamente, cosa fatta capo ha, chi non è con noi è contro di noi, ardisco non ordisco e naturalmente il grido di battaglia (Eia, eia, eia, alalà, destinato nell’immediato futuro a grandi fortune con la sua ripresa da parte del fascismo …). E accanto a questo, il costante richiamo alla categoria dello Spirito, già utilizzata in passato:
C’è da una parte una gente inclinata a rinunziare a dimenticare a condonare ad acconciarsi a rassegnarsi; dall’altra c’è uno Spirito. Perciò Fiume fu invitta. Per ciò oggi è invincibile. Noi potremo tutti perire sotto le rovine di Fiume, ma dalle rovine lo Spirito balzerà vigile e operante. Dall’indomito Sin Fein irlandese alla bandiera rossa che in Egitto unisce la Mezzaluna e la Croce, tutte le insurrezioni dello spirito contro i divoratori di carne cruda e contro gli smungitori di popoli inermi si riaccenderanno alle nostre faville che volano lontano.
...dove si può cogliere un accenno anche a quel progetto di Lega delle nazioni oppresse, poi abortite, di cui l’insurrezione di Fiume costituiva un simbolo. Vi era un legame spirituale tra l’insurrezione di Fiume e la condizione di altri popoli oppressi dal dominio delle grandi potenze. E in quanto al valore di quanto vi stava avvenendo, aggiungeva che ogni insurrezione è uno «sforzo di creazione. Non importa che sia interrotta nel sangue, purché i superstiti trasmettano all’avvenire, con lo spirito di libertà e di novità, l’istinto profondo dei rapporti indistruttibili che li collegano alla loro origine e al loro suolo».
Io non so se davvero nella Fiume del periodo dell’impresa si possano cogliere i semi del clima sessantottesco (quando non «settantasettesco»): appare però con chiarezza la gravità inaudita, per l’epoca ma potrebbe ammonirci anche sui nostri tempi, questa negazione della legittimità dello Stato e delle sue istituzioni, questa carica eversiva, del tutto insofferente di leggi, gerarchie (ivi comprese quelle militari), diplomazia; questa super-valutazione di un io capace di plasmare la volontà della folla – non ancora delle masse –; né credo che la carta del Carnaro, di cui non ho voluto parlare in questa sede; ne parlerà autorevolmente l’amico Patrick Karlsen in uno dei prossimi incontri, elaborata da De Ambris con l’apporto di D’Annunzio, possa essere presa ad esempio di una concezione moderna dello Stato e dei rapporti intercorrenti tra cittadini e istituzioni. Per questo ci sarebbe voluto del tempo e in Italia ci sarebbe voluta l’esperienza del fascismo per risvegliare un’idea più alta e più nobile di democrazia. Mi pare, soprattutto, che quell’impresa sia figlia del suo tempo, e che le stesse componenti artistiche d’avanguardia che vi confluirono erano state elaborate in quei primi tormentatissimi anni del Novecento, i cui molti fermenti – quelli positivi e quelli negativi – si sarebbero scontrati con la tragedia e la profonda ferita della Grande guerra. Da lì, le successive drammatiche vicende dell’Italia e dell’Europa nell’età dei totalitarismi, durante la quale il culto del capo avrebbe occupato uno spazio centrale, fino al parossismo.
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