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Materiali per l'università

 

Islam e islamismo

Ottavia Schmidt di  Friedberg (Università di Trieste)

 

pubblicato in Cologna D., Breveglieri L., Granata E., Novak C., Africa a Milano. Famiglie, ambienti e lavori delle popolazioni africane a Milano, Abitare Segesta, Milano, 1999, pp.193-204.



n.b. bibliografia incompleta

Oggi l’islam e l’islamismo sono usciti dal terreno dell’esotico e degli studi specialistici per diventare argomento di dibattito corrente sulla stampa e sui media. Ciò non soltanto a causa di gravi avvenimenti internazionali (soprattutto la guerra civi­le in Algeria, la questione palestinese, l’Afghanistan, ecc.), ma anche per la presenza in Italia ed in Europa di persone e gruppi che all’islam come religione e come cultura e, in alcuni casi, all’islamismo come progetto di società e come ideologia, fanno riferimento. Malgrado ciò, il livello d’informazione e di “conoscenza fine” (non per stereotipi, bensì basata su una continua e attenta valutazione delle informazioni e delle esperienze), resta ancora molto limitata. Basti pensare al fatto che islam e islamismo sono spesso considerati sinonimi, e confusi.

Nella valutazione di un fenomeno controverso come il fondamentalismo islamico (o islamismo), entrano in gioco non soltanto fattori “oggettivi” (legati ai fatti) ma anche soggettivi, legati cioè alle opinioni e all’universo di valori di chi osserva. In altre parole, sull’islamismo, prima che un giudizio di fatto, s’esprime un giudizio di valore. La particolare preoccupazione che desta tale movimento in Occidente nell’epoca della globa­lizzazione non è dovuta soltanto alla sua rilevanza politica, ma anche alle questioni che solleva sulla nostra società e sull’universalità dei processi di democratizzazione. Alla base di tale di­battito vi sono questioni fondamentali come il rap­porto tra religio­ne e stato, tra valori del foro privato e del foro pubbli­co, tra etica e politica, infine cosa s’intende per democrazia.

Sulla scia di studi politologici che prospettano i conflitti del futuro come basati non tanto su differenze economiche o ideologiche bensì culturali, alcuni osservatori tendono addirittura a “costruire” un’immagine dell’islam come “minaccia” del futuro, il “pericolo verde” dopo il “pericolo rosso”.

Il primo passo per uscire da queste generalizzazioni e per conoscere la complessa realtà del mondo islamico, consiste nel distinguere. Innanzitutto bisogna distinguere l’islam dall’islamismo; bisogna poi orientarsi tra i vari modi di vivere e comprendere l’islam, legati a differenti tradizioni storiche, sociali, culturali ed etniche; i vari livelli di commistione tra islam e modernità, tra islam e tradizione; infine bisogna lasciare spazio ai diversi approcci e gradi di adesione individuale alla religione.

Per quanto riguarda poi l’islamismo, occorre innanzitutto definirlo, e poi determinare se esiste un unico feno­meno chiaramente individuabile, di là dalle diverse manife­stazioni locali e dai diversi termini impiegati. Già a livello di denominazione ci troviamo di fronte ad una palude semantica: fondamentalismo islamico, integralismo, neo-fondamentalismo islamico, islam politico, islamismo, radicalismo islamico, reviva­l o risveglio islamico, riformismo islamico, ecc. Questi termini indicano tutti la stessa cosa? Se è così, perché tanti nomi per un solo fenomeno? Si noterà che la pluralità terminologica utilizzata nelle lingue occidentali (soprattutto in francese ed in inglese) non è dovuta tanto al fatto che i vari termini indicano movimenti differenti, ma dipende dall’universo di riferimento degli analisti, diversi per origine, credenze, esperienze e opinioni. Di fatto, ogni osservatore predilige un termine in base al proprio punto d’osservazione e al proprio giudizio di valore sul fenomeno osservato. La scel­ta del termine, dunque, non è neutra bensì legata al retroterra ideo­logico di colui che lo impiega. Il termine “fondamentalismo”, ad esempio, utilizzato in ambito anglo­fono, è nato nell’Ottocento nell’ambito del riformismo protestante americano, forse l’unica corrente religiosa che si sia mai autodefinita tale. Il termine è stato poi esteso ad altre culture (tra cui l’islam), religiose e non (fondamentalismo etni­co, religio­so, ebraico, cattolico, ecc.), sottintendendo implicitamente che è la stessa logica ad agire in queste differenti realtà. Nel suo significato originario, riferito al protestantesimo, esso mette l’accento sul “ritorno” ai fondamenti della fede, alla lettura diretta e all’interpretazione letterale del testo sacro (la Bibbia). Il termine “integralismo”, invece, è nato in ambito cattolico. Il termine “islamismo” dà l’idea di una specifi­cità che lega il fenomeno solo all’islam, e non ad altre religioni. Il termine “islam politico”, utilizzato da alcuni analisti americani, vorrebbe evitare prese di posizione a priori (cioè la valutazione a priori negativa dei movimenti islamisti), ma non sfugge al “pre”-giudizio di valore. Per riassumere, in base al termine utilizzato per definire “l’islamismo” non si ottengono informazioni su quale sia il movimento analizzato, ma invece sull’osservatore e le sue opinioni. Gli stessi osservatori arabi - e a volte perfino gli stessi islamisti - sono influenzati da questa terminologia.

In realtà, ciò che conta non è tanto quale termine sia più corretto in assoluto, quanto lo spiegare perché lo si è scelto, cosa s'intende con esso e quali sono i limiti conte­stuali (storici, geografi­ci, ideologici) della sua appli­cazione.

 

1. Islam e islamismo secondo l'uomo della strada

Prima di tentare di dare delle definizioni, cerchiamo di delineare qual è il "patrimonio comune" sull'argomento, cioè quanto si desume dalle opinioni espresse più comunemente dall’ ”uomo della strada” e da buona parte dei media.

Al con­trario di quanto avviene per altri temi, è assai raro che questi non abbia un’opinione o che affermi di non sapere di che si tratta. Come un tempo il comunismo, l’islamismo suscita immediate reazioni - di solito di rigetto - e prese di posizione “schierate”, ma ciò non è dovuto al fatto che l’interlocutore sia realmente informa­to. L’opinione si fonda su un giudi­zio a priori che non s'avvale né dell’esperienza diretta (conoscenza di islamisti o l'avere vissuto in contesti in cui essi agiscono), né della conoscenza libresca. Il fatto, poi, che da tempo vari osservatori e varie fonti (disponibili anche in italiano) tentino di spiegare a chiun­que si preoccupi di informarsi che la descrizione che emerge non cor­risponde alla realtà (o perlomeno a tutta la realtà), non sembra incidere sull’immagine costruita e trasmessa.

L’immagine dell’islam e dell’islamismo che se ne trae è la seguen­te:

1) L’islamismo è l’islam o comunque ne è l'anima nascosta: l’islam lasciato a sé stesso, libero di svilupparsi, evolverebbe naturalmente nell’islamismo. I due termini sarebbero pertanto sinonimi, l’isla­mismo non essendo altro che l’islam militante, l’islam dispiegato.

2) L’islamismo sarebbe un ritorno alla tradizione, al passato; esso rivelerebbe il carattere retrogrado e antidemocratico del­l’islam. Si trattereb­be di un movimento ultraconservatore, che vorrebbe imporre una legge me­dioevale alle società contemporanee. In particola­re, s'opporrebbe al sistema democratico di governo (separazione dei poteri, alter­nanza, libere elezioni, ecc.), ai diritti dell’uomo (li­bertà di fede, d'espressione, ecc.), alla parità dei sessi, alla separazione tra stato e religione.

3) L’islamismo - l’islam - sarebbe per sua natura violento e aggressivo. La violenza, sia ver­bale sia fisica, mirerebbe ad imporre la legge islamica nel foro sia privato sia pubblico.

4) L’islamismo sarebbe alla base di una macchinazione panislamica, volta a coinvolgere tutti i paesi musulmani (dal­l’Algeria all’Afghanistan, passando per il Sudan e l’I­ran), in funzione antioccidentale e antimoderna.

5) “Islamisti” sarebbero tutti, indipendentemente dal fatto che molti dei movimenti e governi considerati tali sono radicalmente differenti e in netta opposizione tra loro. Ciò vuol dire, per non citare che gli esempi più noti, mettere nello stesso paniere i talebani afghani, l’Iran khomeinista e post-khomeinista, l’Iraq di Saddam Hussein, lo stato patrimoniale dell’Arabia Saudita, il partito Refah turco, i “veri” islamisti (lo Hamas e lo Hizbollah palesti­nesi e libanesi, i Fratelli Musulmani egiziani, ecc.), il Sudan di Hassan al-Turabi, la jamahiriyya libica di Gheddafi, il FIS algerino e i GIA....

Dobbiamo dunque concludere che qualsiasi indivi­duo, gruppo, parti­to, movimento o governo, legale o illegale, al potere o all’opposizione, vio­lento o pacifico, che faccia riferimento all’islam in qualsivoglia maniera, è islamista? Se così fosse, se davvero tutti i movimenti e governi succitati facessero riferimento alla medesima ideologia islamista per formare “un’internazio­nale islamica”, come spiegare i contrasti esistenti? Come spiegare che alcuni di questi paesi sono stati in guerra tra loro? Come spiegare casi come quello della guerra del Golfo, in cui l’Arabia Saudita si è schierata contro Saddam Hussein? O che vi sia stata una guerra tra l’Iran degli ayatollah e l’Iraq di Saddam Hussein? O il fatto che Gheddafi abbia condannato a morte e messo fuori legge i movimenti islamisti? O che in Algeria i gruppi islamisti si combattano tra loro? Il liquidare come “islamista” qualsiasi movi­mento o governo che in qualsivoglia maniera faccia rife­rimento al­l’islam non spiega granché, né ci fa progredire nel tentativo di capire cosa sia l’islam, cosa lo caratterizzi e perché attragga, né cosa sia l’islamismo.

 

2. Islam e islamismo: alcune chiarificazioni

 

Il proliferare e l’autoriprodursi di tali stereotipi, rende necessario chiarire i punti seguenti:

a) L’islamismo non è l’islam. Mentre il secondo è una religione con più di 1400 anni di storia alle spalle e più d’un miliardo di fedeli appartenenti a popoli, continenti, lingue e culture assai diversi tra loro, il primo è un movimento recente che ha le sue radici nei movimenti di rinascita islamica ottocenteschi e coinvolge alcu­ne decine, forse alcune centinaia di mi­gliaia, ma non certo milioni, di persone.

b) L’islamismo è ben diverso dalla “tradi­zione islamica” (o, meglio, dalle tradizioni), alla quale anzi non di rado s'oppone. Infatti, l’islamismo è nato non soltanto dall’incontro/scontro con la modernità laica e occidentale, ma anche dal conflitto con la tradizione espressa dagli ‘ulama’ (giuristi, interpreti della tradizione islamica) e con la tradizione popo­lare. Esso si pone in posizione di rottura con le ge­rar­chie religiose che sono state storicamente le interpreti dell’islam (Choueiri, 1993), le quali sarebbero compromesse con i regimi al potere e avrebbero soffocato la vitalità del messaggio coranico. Molti islamisti non hanno alle spalle un corso di studi “tradizio­nale” bensì “moderno”: è più facile trovare nelle loro file ingegneri e medici diplomati negli Stati Uniti che giuristi laureati al Cairo o a Medina (Kepel, 1984; Eisenstadt, 1993). In questo senso, dunque, non si tratterebbe di un movimento conservatore. Secondo Eisenstadt (1993), l’islamismo è antitradizionale poiché si fonda su una visione ideologica che nega la complessità e l’eterogeneità della tradizione. Secondo Nasr (1987), al pari del modernismo e al contrario del tradizionalismo, l’islamismo accetta acriticamente la scienza e la tecnologia occidentale. Infatti, non vi è praticamente alcuna differenza nel modo in cui, sul piano pratico, i paesi musulmani con forme di governo “moderne” e quelli con forme “islamiche” cercano di adottare la tecnologia occidentale. Secondo Eisenstadt (1993), il rapporto del fondamentalismo con la modernità emerge anche dalle sue caratteristiche organizzative: la disciplina di partito e l’uso della tecnologia.

L’islamismo non è dunque un ritorno ad un mitico passato, ma un’esperienza nuova, che rappresenterebbe la risposta alla nascita degli stati-nazione postcoloniali. Pur essendo “quella posizione intellettuale che pretende di derivare i principi politici da un testo ritenuto sacro”, esprimerebbe le ansie dei ceti medi in precarie condizioni economiche (Choueiri, 1993). Fino agli anni Settanta, l’islamismo rimane più una corrente intellettuale che un movimento politico, ma poi, invece di limitarsi ad essere elemento di reazione all’interno della comunità, si pone come elemento di “innovazione” politica. Ne sono espressione la nebulosa di movimenti nati sulla scia delle correnti di pensiero generate dagli scritti di Sayyed Qutb e di Mawdudi, i quali affermano che secolarismo e la democrazia ignorano il fondamento divino del potere.

L’islamismo, infatti, intende riaprire la porta dell’ijtihad, cioè dell’interpretazione coranica (la cosiddetta “chiusura della porta dell’ijtihad” ebbe luogo nel 1600), al fine di meglio aggirare il dogmatismo della tradizione. Secondo Roy (1998), i movimenti islamisti stanno producendo un processo di individualizzazione: ciò “non conduce necessariamente ad un aggiornamento teologico o giuridico, ma piuttosto alla deconnessione tra un dibattito teologico bloccato e la creatività d'una religione che si ricentra sull'individuo."

c) Non c’è bisogno di essere islamisti (e, a maggior ragione, musulmani) per essere violen­ti, né per esprimere una cultura della violenza: se livelli molti alti di violenza e di brutalità si sono scatenati in Algeria, negli stessi anni ciò è avvenuto, ed avviene, anche in altri paesi non musulmani (si pensi al Ruanda) che, come l’Algeria, vivono le drammatiche contraddizioni della costruzione dello stato-nazione postcoloniale e della modernizzazione. Inoltre, se si confronta la gestione del potere dei dirigenti di paesi a maggioranza musulmana che si definiscono “laici” con quelli che si definiscono “musulmani”, non si nota una differenza in termini di grado di violenza espressa (Salamé, 1994). La linea di demarcazione politica non oppone le forze democratiche ad altre che non lo sarebbero, ma forze sovente altrettanto estranee le une che le altre ai principi democratici e altrettanto poco preoccupate di applicarli. Nel caso degli islamisti, “sarebbe ingiusto stimar(li) meno democratici d’altre forze rivali; l’opposizione “islamista/democratico” lanciata dagli anti-islamisti algerini è fondata nella migliore delle ipotesi su un’ambiguità, e più verosimilmente su una soperchieria: se l’adozione di elezioni democratiche da parte gli islamisti è considerata opportunista, reversibile, non sincera, si cercheranno invano professioni di fede democratica più convincenti tra i regimi al potere o tra la maggior parte delle forze d’opposizione.” (Salamé, 1994)

Sebbene la storia fornisca molti esempi in cui i musulmani hanno fatto uso della violenza, non offre però materia per sostenere che ne abbiano fatto un utilizzo maggiore d'altri gruppi legati ad altre religio­ni, né che la violenza sia connaturata all’islam. Quanto alla violenza “islamista”, la quale è innegabile, è ancora da dimostrare che essa sia inerente, intrinseca e inscindibile dai presupposti teorici di ogni tipo di movimento islamista.

d) Il mondo “musul­mano” non è un blocco monolitico, bensì un universo variegato, che esprime al proprio interno altrettanta varianza ideo­logica, culturale e politica, e forse maggiore, di quanto ne esprima il mondo "cristiano", inteso dalla Russia all’Europa Occiden­tale, dagli Stati Uniti all’America Latina, all'Africa Australe. Esistono dun­que varie lett­ure e vari vissuti dell’islam, nonché vari livelli di adesione e di compromesso, e i musulmani, pur professando tutti un solo credo, sono ben lontani dall’esprimere un’unica e omogenea visione del mondo, della vita e della politica. Perfino all'interno di ciò che è reputato islamismo vi sono differenze sostanziali.

Al timore della “macchinazione islamica” presente in Occidente, fa da contrappeso la sindrome dell’accerchiamento e della cospirazione da parte del mondo occidentale (a seconda dei casi definito irreligioso, ateo, edonista, amorale, corrotto, privo di valori, oppure giudaico-cristiano e investito dello spirito di crociata) nei confronti del mondo islamico. “Colpisce il contrasto tra la percezione occidentale contemporanea d'un islam conquistatore, e quella, più comune tra i militanti islamici, d'un islam "sofferente", oppresso, minacciato nella sua stessa identità, e in ogni modo incapace di mobilitazione generale, sia a causa dell'imperialismo occidentale che delle divisioni inerenti al mondo musulmano." (Roy ,1998). Anche Esposito (1997) fa notare che di fronte al fallimen­to dell’Occidente sia come fonte di modelli culturali che come alleato, e di fronte alle forme di neocolonialismo ancor oggi esportate ed imposte dai governi locali, i musulmani si percepiscono come oppressi dall’Occidente.

e) Occorre infine notare che il pensiero moderno islamico è ben lungi dall’esaurirsi nel pensiero islamista (per mantenere e forzare l’analogia: sarebbe come dire che il pensiero politico occidentale di questo secolo si esaurisce nel marxismo). Al di là del­l’universo delle posizioni “islamiste”, esistono all’interno del mondo musulmano correnti riformiste modernizzanti, si vedano ad esempio an-Na'im, e al-Ashmawi (ma anche Arkoun), secondo i quali la legge islamica (shari'a) non è applicabile nel mondo moderno: essa è d'origine umana e non divina e, come tale, può evolvere. Secondo an-Na'im (1997), solo una revisione di tale legge può salvaguardare i diritti dei musulmani, delle donne e dei non musulmani. Il problema è di sapere quanto seguito abbiano queste tendenze a livello popolare. Mentre la critica all’islamismo avviene anche in ambito conservatore e ‘tradizionale’, il rifiuto della confusione tra islam e cultura musulmana è presente anche tra i riformisti. Del pari, la critica al dominio culturale ed economico da parte dell’Occidente è presente non solo in ambito islamista ma anche moderato e conservatore.

 

3. Lo stato del dibattito in Occidente tra culturalismo e universalismo

 

In Occidente esiste ormai una vastissima letteratura sull'islamismo. Cosa offrono, in termini di spiegazione, gli studiosi “occidentali” che si sono occupati dell’islamismo e che si pongono pertanto come opinion maker? Conoscerne l’opinione è tanto più importante in quanto la parte di pubblico occidentale che ha accesso diretto, non mediato, alla letteratura islamica e islamista è assai ridotto. Pochi, infatti, anche tra il pubblico colto, sono coloro che conoscono anche solo i nomi dei principali pensatori arabi e/o musulmani, classici o contemporanei. Ancor meno coloro che li hanno letti, per non parlare poi della letteratura islamista. Ma ciò non sarebbe molto grave se vi fosse almeno una conoscenza “di pelle” con la/le culture islamiche, dovuta a molteplici piccole esperienze personali, ad un continuo confronto su temi quotidiani con persone di religione musulmana.

I vari studiosi e analisti divergono non soltanto nella valutazione del fenomeno, ma anche nella sua definizione e quindi nel decidere quali movimenti debbono essere inclusi in esso. L’unico punto su cui tutti sembra­no essere d’ac­cordo - che l’islamismo sarebbe l’utilizzo dell’islam come fondamento della politica e che esso auspicherebbe che la legge religiosa (shari'a) sia alla base della legge dello stato - appare troppo vago e non dà ragione del fatto che molti governi “laici”, quando lo ritengo utile, fanno un uso strumentale dell’islam in politica.

Possiamo individuare due grandi linee di tendenza, una culturalista e una universalista, le quali rappresentano due approcci sostanzialmente differenti all’analisi e alla valutazione politica dell’islamismo.

Secondo l’approccio culturalista (si veda in particolare Esposito e Voll, 1996; Esposito, 1997), che si basa sull’idea che ogni società esprime valori propri e può essere giudicata solo all’interno del proprio universo culturale, la diversità culturale renderebbe conto del diverso rapporto tra politica e religione esistente tra le società musulmane e quelle occidentali. Tale tendenza parte dalla premessa che non esiste un'unica interpretazione della realtà, né quindi una sola e universale concezione della democrazia, della gestione della cosa pubblica e dello sviluppo, inferendo che il mondo islamico (e così altre culture) esprime una propria visione politica specifica, tratta dalla propria storia, cultura ed esperienza. L’islamismo sarebbe uno dei tentativi (e non l’unico) di interpretare in chiave islamica la modernità. Si mette l’accento sul fatto che l’islamismo deve essere contestualizzato e che esso potrebbe rivelarsi una via specifica alla democrazia che non rispecchia ne­cessariamente quella seguita dai paesi occi­dentali. I culturalisti postulano quindi che può esistere un islamismo moderato che non s'esprime necessariamente attraverso la vio­lenza. Per­tanto, almeno in linea di principio, l’islamismo sarebbe una cultura politica "lecita" e quindi avrebbe dirit­to di cittadinan­za nell’arena internazionale e nel dibattito politico.

Alcuni osservatori (Leveau, 1993; Choueri 1993; Waterbury, in Salamé, 1994) paragonano il ruolo dell’islamismo a quello svolto in Occidente dai movimenti marxisti. Secondo Leveau (1993) nella fase di trasformazio­ne accelerata che le società musulmane hanno dovuto affronta­re a partire dalla decolonizzazione, gli islamisti svolge­rebbero la funzione che ebbero i partiti comunisti europei negli anni Trenta, ponendosi nello spazio politi­co come difensori del popolo. Essi non avrebbero maggiore considerazione per la democrazia formale di quanta ne avessero i partiti marxisti negli anni Trenta: tuttavia certe correnti forse già in atto potrebbe­ro rappresentare l’e­quivalente di ciò che è stata la socialde­mocrazia per il movi­mento comunista internazio­nale. Come è accaduto per molti partiti marxisti, si può pensare che, se e quando, gli islamisti fossero integrati nel gioco politico, s'adatterebbero alle sue regole, pur continuando ad agitare una retorica reli­gioso-rivoluzionaria.

Per Burgat (1995), i movimenti fondamentalisti rimettono in discussione la relazione culturale posta in essere durante il periodo coloniale. Essi rappresenterebbero il terzo stadio della decolonizzazione, quel­lo culturale, dopo quello politico e economico, appro­priandosi della modernità riletta in chiave islami­ca. Burgat cita Ghannuochi, l’ideologo del movimento tunisino an-Nahda, il quale afferma: “Il Giappone conserva pienamente le sue tradizioni, la sua cultura, la sua civiltà ed è tuttavia partecipe dello sviluppo universale mondiale. Perché dobbiamo essere i soli a non gustare i benefici della modernità se non per il tramite obbligato di Descartes o Marx? Per accedere alla modernità non vi sono in effetti altre strade che quelle che hanno tracciato per noi la nostra storia, religione, civiltà.”

La tendenza universalista attribuisce alla laicità (secola­rismo) come è concepita e interpretata oggi in Occi­dente e di là dalle contingenze storiche e culturali, valore oggettivo e univer­sale. All’opposto del culturalismo, tale tendenza parte dal presupposto che esiste una cultura politica universale ed un’evoluzione comune, anche se con tempi differenti. Il fondamentalismo sarebbe esso stesso universale e trasversale a varie culture: in altre parole, esso sarebbe una degenerazione di alcune religioni (tra cui l’islam) e ideologie (Choueiri, 1993; Eisentadt, 1993; Tibi, 1997).

Secondo tale tenden­za, la non commistione tra religione e politica è premessa imprescindibile allo sviluppo di una cultura democratica: ogni intervento della religione nella politi­ca porterebbe alla violenza e a forme autoritarie di governo. A tale proposito, Tibi (1997) sottolinea che il fondamentalismo non è soltanto un fenomeno che investe l’islam bensì anche altre religioni o ideologie “etniche” (fondamentalismo serbo). In quanto ideologia retrograda e illiberale, esso è inammissibile: non esisterebbe un fondamenta­lismo “buono” ed uno violento. Lo scontro tra civiltà prospettato da Huntington (1993) avverrebbe dunque non tanto tra una “civiltà” e l’altra, quanto tra le tendenze “fonda­mentaliste” e quelle “laiche” di ogni civiltà. Così, anche se alcuni fondamentalisti (islamici, induisti, cattolici, ecc.) dichiarano a parole d'accettare il sistema democratico, lo farebbero soltanto per ragioni tattiche e non per reale adesione a tale sistema di valori.

 

4. Islamismo e democrazia

 

Per riassumere, le tendenze culturaliste distinguono fra le varie tradizioni islamiche e restano “possibiliste” sull’ipotesi di un’eventuale partecipazione politica di gruppi che fanno riferimento alla religione islamica (così come è avvenuto in Occidente per le Democrazie Cristiane), purché questi dimostrino nelle parole e nei fatti di “rispettare le regole del gioco”. Essi introducono la distinzione tra varie forme di islamismo, accettabili o meno in base al fatto che rispettino o no i diritti umani, e sottolineano soprattutto la necessità di una verifica empirica caso per caso, in luogo di una condanna a priori dell’islamismo in quanto tale.

Le tendenze universaliste, invece, affermano che non vi può essere commistione tra religione e politica, né politica “buona” che faccia riferimento alla religione. I fondamentalismi (etnici o religiosi) sarebbero disfunzioni della politica, sarebbero antidemocratici, e, come tali, debbono essere rifiutati, mentre esisterebbero principi universali, validi per tutti, al di là delle singole culture e religioni, che non possono essere disattesi (i diritti dell’uomo).

Il culturalismo esasperato conduce a giustificare qualsiasi cosa (limitazione dei diritti della donna e della partecipazione politica) in base al fatto che “è la loro cultura”; al contrario, l’universalismo esasperato conduce a pensare che i principi elaborati in Occidente durante l’Illuminismo siano gli unici validi per tutti e che non siano essi stessi “culturali”. In realtà esso è ben poco universale, poiché tende a imporre la propria visione del mondo come la sola ed unica “veramente democratica”, mentre nello stesso Occidente si è ben lontani da un consenso generalizzato su cosa sia democrazia e quali siano le istituzioni e le modalità per stabilirla (Esposito e Voll, 1996).

La questione non è di negare l’esistenza di valori universali, ma piuttosto di chiederci se la veste che a questi si dà in Occidente sia l’unica possibile.

Anche in Occidente l’emergere e lo sviluppo dei valori e delle istituzioni democratiche, è stato un processo travagliato e tormentato, traversato “dalle tensioni e dai conflitti che accompagnano tutti i grandi periodi di trasformazione storica e sociale; è stato l’oggetto di grandi dibattiti e grandi rivoluzioni, di retorica e spargimento di sangue, guidato da democratici e da demagoghi. L’accettare la natura controversa della democrazia, la sua diversità e la dinamica del suo sviluppo, consente di riconoscere che vi possono essere alternative e usi concorrenti del termine.” (Esposito e Voll, 1996).

Nel mondo musulmano, ciò solleva la sfida di definire la “democrazia islamica”, in modo da rispondere sia alle richieste di crescente partecipazione politica popolare che al desiderio di fondare la democrazia su principi tratti dalla propria cultura (Esposito e Voll, 1996). Tale sforzo non è necessariamente anti-occidentale, ma contiene la constatazione che c’è un problema non tanto con i valori profondi espressi dalla democrazia di stile occidentale, bensì con la sua forma e con i modi della sua applicazione. (Esposito e Voll, 1996)

La questione cruciale da verificare è se vi sono movimenti islamisti che tollerino la diversità e l’alternanza una volta giunti al potere. Anche qui è opportuno evitare i giudizi generali, mentre occorre valutare caso per caso. Secondo Waterbury, escludere gli islamisti dalla politica elettorale “è un’illusione; includerli senza avere stabilito in precedenza a che condizioni è invitare alla distruzione del processo democratico e dello stato territoriale. Una transizione con delle garanzie negoziate può dunque costituire una soluzione, o almeno un obiettivo.” (in Salamé, 1994)

Secondo Esposito e Voll (1996), il metro di giudizio e gli standard di valutazione da applicare non dovrebbero essere quelli “ideologici” (islamista/ non islamista; “laico/ religioso”), bensì quelli dei diritti dell’uomo. L’eliminazione dell’opposizione, l’autoritarismo sia religioso o secolare, la tortura, le limitazione della libertà d’espressione e di movimento, dovrebbero essere condannati con pari vigore qualsiasi sia la loro provenienza, sia essa islamista o laica. Allo stesso tempo, dovrebbero essere incoraggiati gli sforzi e i tentativi di creare una vera partecipazione politica allargata e di rafforzare la società civile, anche se tali sforzi propongono prospettive e approcci che non sono quelli utilizzati nelle democrazie dell’Europa occidentale e del Nord America.

Infatti, le gravi condizioni di ineguaglianza e di autoritarismo oggi presenti in molti paesi musulmani, arabi e non, ci pongono di fronte al fatto evidente che “l’identificare un governo come un regime impegnato a implementare la legge religiosa oppure invece l’occidentalizzazione non ci fornisce alcuna previsione sul fatto che tale regime sarà o meno autoritario o democratico. L’impegno nell’occidentalizzazione non è una garanzia di democrazia, né l’applicazione della legge islamica prova di un autoritarismo insito nell’islam.” (Esposito e Voll, 1996)

Secondo Leca, la questione del futuro è di “sapere se l’ideologia islamica può diventare una branca particolare del liberalismo universale o se uno degli scontri più gravi che conoscerà il mondo arabo della fine del XX secolo opporrà, non l’”islam” alla “democrazia” ma l’ideologia islamista al costituzionalismo.” (in Salamé, 1994).

In ogni caso, in quanto tentativo di porsi di fronte alla crisi complessiva del mondo musulmano, l’islamismo non va sottovalutato, né liquidato affrettatamente

 

5. Italia, immigrazione, islam

 

Come è noto, l’islam è ormai la seconda religione in Italia in base al numero degli aderenti. Ciò è visto con preoccupazione da chi nell’islam vede una cultura retrograda antagonista dei valori del viver civile, mentre altri guardano con preoccupazione l’insediarsi d’una religione non radicata nella storia e nella cultura italiana recente; altri ancora vedono con favore questo nuovo aspetto, che considerano prova del pluralismo culturale e dell’apertura della società italiana.

Che cosa pensano i musulmani in Italia? Come abbiamo affermato più volte, non è possibile generalizzare. Essi provengono da retroterra culturali assai differenti e appartengono a società differenti (non ultima delle quali, l’italiana) e, soprattutto, sono individui dotati ciascuno delle proprie idee. Né più né meno di qualsiasi altro individuo, hanno un rapporto personale e dialettico con la religione, che può andare dal rifiuto a varie forme di adesione e mediazione, all’adesione totale. Possiamo tuttavia individuare alcuni temi e atteggiamenti dominanti, diffusi tra una parte almeno dei musulmani, dettati dalla necessità e dal tentativo di “comporre” due universi culturali.

a) Il timore, una volta in Europa, di “perdere sé stessi”. L’Occidente è percepito come minaccioso: se in epoca coloniale si è trattato di una minaccia concreta e reale per il mondo musulmano, oggi resta una minaccia in termini di egemonia economica e culturale. L’immigrato “debole” rischierebbe di soccombere di fronte all’amoralità e all’assenza di valori delle società europee. Il musulmano pio immigrato deve guardarsi da questo pericolo.

b) Altri vedono invece l’Occidente come luogo di libertà dalle costrizioni della società d’origine, in molti casi autoritaria e illiberale. Molti giovani musulmani apprezzano il grado d’indipendenza di cui possono godere in Italia e l’affrancamento dal conformismo e dai vincoli familiari e sociali che si contrappongono alle scelte individuali. Non ultimi tra questi, alcuni islamisti, che godono nel nostro paese della libertà di fede e del fatto di non essere perseguitati dai governi dei loro paesi d’origine per le loro idee politiche e religiose.

c) Molti musulmani, infine, scelgono un “profilo basso”, in altre parole evitano di parlare di alcuni aspetti della loro religione e cultura nel timore (o nella certezza?) di non essere compresi e accettati. Già prima di giungere in Italia, infatti, gli immigrati musulmani sapevano che certi aspetti del loro vissuto religioso tra­dizionale (velo femminile, poligamia, rifiuto dell'alcol, sacrificio d’animali) sono in conflitto con le abitudini ed i valori della società d'accoglienza.

 

Malgrado molti inopportuni allarmismi, in Italia il numero di immigrati resta ancora assai contenuto. Rispetto ad altri paesi europei, poi, anche il numero d’immigrati originari di paesi a maggioranza musulmana è più contenuto. Esso si aggira, secondo le stime più affidabili, intorno alle 400.000 persone. Nonostante ciò, il breve lasso di tempo durante il quale il paese è passato da luogo d’emigrazione a meta d’immigrazione ha contribuito a creare una sensazione di disagio e malessere nei confronti degli “altri” e a costruirne un’immagine negativa. Di questa immagine negativa sono soprattutto gli immigrati musulmani a fare le spese.

Forse ancor più che in altri paesi europei, in Italia gli immigrati di religione musulmana hanno origini nazionali, linguistiche e sociali assai diverse, che vanno dal Marocco al Bangladesh, dalla Nigeria all’Albania. Anche il livello d’istruzione è molto vario, comprendendo analfabeti e plurilaureati. In Italia non v’è una nazionalità largamente maggioritaria che faccia da gruppo di riferimento e che monopolizzi l’espressione pubblica dell’islam, come avviene in Francia con gli algerini o in Germania con i turchi. Tuttavia, i marocchini, dato il loro peso numerico, potrebbero sul lungo periodo far sentire la loro influenza culturale. Troviamo rappresentate diverse appartenenze all’islam, sociali e individuali: tra le prime ricordiamo sunniti e sciiti, movimenti come il tabligh, d’origine indopakistana e la nahda tunisina, confraternite (naqshebendi, tijani, muridi, burhani.), ecc. Per quanto riguarda l’appartenenza individuale abbiamo già sottolineato che ogni persona ha un suo rapporto particolare con la religione che non gli può essere ascritto in precedenza. Il ritenere ogni musulmano un rigoroso praticante, che si comporta “come da manuale”, ha altrettanto senso che pensare che tutti coloro che in Italia sono stati battezzati vadano a messa o frequentino la parrocchia; il ritenere che ogni musulmano è un islamista iscritto a qualche gruppo militante ha altrettanto senso che ritenere ogni cattolico membro dell’Opus Dei oppure di Comunione e Liberazione.

 

In Italia le associazioni islamiche (e non islamiste) si sono costituite in tempi più brevi che in Francia per far fronte alla situazione di precarietà e di anomia dei musulmani immigrati. Ormai queste sono numerose e diversificate. Esse manifestano, appena il numero lo rende possibile, una tendenza alla suddivisione e alla frammentazione piuttosto che all’unificazione. Mentre certe associazioni sono molto presenti (Centro Isla­mico di Milano e Lombardia, Centro Islamico di Torino, Associazione Italiana Internazionale per l’Informazione sull’Islam, ecc.) e partecipano attivamente ai dibattiti pubblici, cercando di rendere visibile l’islam (attraverso bollettini, partecipazione a conferenze, visite guidate di scolaresche, articoli, partecipazione ad eventi locali e nazionali), altre associazioni e soprattutto quelle legate alle confraternite, preferiscono mantenere l’attività religiosa come fatto riservato all’interno del gruppo (tijani, burhani).

Le associazioni si adattano alla realtà locale italiana, occupando gli spazi disponibili: si cercano soluzioni locali ai problemi pratici comuni (aprire sale di preghiera, macellazione islamica, insegnamento, ecc.). Il successo di tali iniziative dipende sia dalla ricettività della società locale che dalla capacità di negoziazione di ciascun gruppo, nonché dalla sua capacità di trasmettere un’immagine “rassicurante” e positiva all’esterno. Oltre all’impegno locale, le associazioni intrattengono o tentano di stabilire legami tra loro.

Secondo Allievi e Dassetto (1993), già nel 1993 si contava più d’un centinaio di sale di preghiera e quattro moschee (Roma, Catania, Paler­mo e Milano). All’opposto di quanto è avvenuto in Francia (in particolare a Marsiglia, Lione, Evry), per ora in Italia, la massima espressione della visibilità dell’islam sul territorio, la costruzione di moschee “monumentali” (cioè costruzioni apposite e non edifici o locali riadattati) non si è ancora manifestata, dato che richiede investimenti impor­tanti non facilmente disponibili al momento. Fa eccezione il caso della moschea di Roma.

In Italia, il riconoscimento d'uno statuto pari a quello degli altri culti (riformati, ebraico) per l'islam non trova, almeno in linea di principio, ostacoli giuri­dici ma piuttosto ostacoli d'ordine pratico e organizzativo, nonché d'ordine politico. L'intesa richiede un’apertura da parte del governo, ma soprattutto che le associazioni islamiche trovino un accordo di minima tra loro. La frammentazione e la proliferazione delle associazioni non facilita l'istituzionalizzazione dell'islam. Infatti, la stipula di un’intesa tra lo stato italiano e le organizzazioni musulmane rende necessari l’unione e il coordinamento tra le diverse associazioni. Tale coordinamento viene raggiunto con difficoltà.

Mentre le di­vergenze e le divisioni tra gli immi­grati musulmani della base sono innanzitutto d'ordine culturale (una khoutba in lingue wolof o urdu non ha molte possibilità di attirare un musulmano somalo o egiziano), quelle che investono i diri­genti delle associazioni ap­paiono innanzitutto politiche o ideologiche e riguardano l’approccio alla religione, i rapporti con il resto della la società italiana, il ruolo dell’islam in Italia, ma anche questioni internazionali.

 

Gli immigrati rifiutano ogni determinismo culturale e non accettano d’essere "orienta­lizzati", cioè d’essere ridotti al corrispettivo dell’italiano “mandolino-spaghetti-cuore in mano-che s’arrangia”. Ciò non vuol dire, naturalmente, rifiutare la propria cultura e/o religione, bensì rifiutare che questi stereotipi siano utilizzati per stabilire frontiere e categorie. Spesso, infatti, gli italiani si attendono ch’essi si conformino e si comportino secondo il modello semplificato che hanno della loro cultura. Come nota Ramirez (1997), il bagaglio culturale degli immigrati musulmani è utilizzato come punto di riferimento per la loro definizione. Ma tale bagaglio culturale "non è più specifico di quello di altri": ogni gruppo immigrato è portatore di un certo numero di differenze e i “musulmani” non fanno eccezione.

Come altrove in Europa, anche in Italia si sta costruendo l'islam come oggetto politico antagonista per eccellenza. La logica dei timori espressi da una par­te della società americana e francese crea e influenza il clima locale. L'evoluzione futura del rapporto tra la società civile italiana e l'islam dipenderà in larga misura dall'evoluzione di questo rapporto nel contesto europeo e internazionale.

I media italiani offrono spesso un’immagine nega­tiva dell'islam, legata ai drammi dell'Afghanistan, dell'Iran, dell'Algeria, del Libano. Soprattutto le atrocità commesse in Algeria e il loro perdurare, hanno sconvolto l’opinione pubblica ed hanno contribuito in non piccola misura ad offuscare l'immagine dell'islam tra gli italiani. Si tratterebbe d’un “altrove” culturale minaccioso per l'Europa, che assume volta a volta il volto degli immigrati clande­stini, del terrorismo, del fanatismo o della violenza. Tale immagine può essere decostruita soltanto avvicinando questo “altrove” e trasformandolo in un “qui”, cioè attraverso l’interscambio e il dibattito quotidiano con le persone che vivono in Italia e che appartengono alla cultura e/o alla religione musulmana.

 

 

* la traduzione dei brani citati è mia.



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