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Eventi

Pubblichiamo tre testi - dell'attuale Presidente Anna Maria Vinci, del prof. Tristano Matta, membro del Direttivo, e della prof.ssa Liliana Ferrari - che ricordano la figura del Presidente dell'Istituto Giovanni Miccoli.

 

Il ricordo della Presidente Anna Vinci 
 

Con commozione e affetto ricordiamo la figura e l’opera di Giovanni Miccoli, recentemente scomparso. Non si tratta di un ossequio di circostanza per noi che nell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione siamo cresciuti e nemmeno – ritengo – per coloro che nella nostra associazione hanno individuato nel tempo un punto di riferimento: un luogo prezioso per discutere e confrontarsi, per aprirsi alla passione civile e alla ricerca storica.
Nei lunghi anni della sua presidenza alla guida dell’Istituto, Giovanni Miccoli, che pur sosteneva un gravoso impegno di ricerca e di didattica presso l’Università di Trieste, formò con entusiasmo i giovani che in vario modo si avvicinavano all’Istituto stesso. Si trattava di osservare la storia della città e della Venezia Giulia con uno spirito diverso, accettando il rischio della ricerca e ponendo in piena luce argomenti difficili e scomodi a fronte di un sentire comune spesso alimentato da un discorso pubblico alterato da pregiudizi e incrostazioni di un passato costruito sulle divisioni nazionali. Non è mio compito, nello spazio di questo breve ricordo, formulare una disanima precisa su quei progetti di ricerca. Basti ricordare che non era facile discutere agli inizi degli anni ’70 di Chiesa e fascismo, individuando il nesso che tra due mondi pur così diversi si era creato attraverso modelli di comportamento e ideologie affini. Non era facile, poco dopo, presentare un lavoro di ricerca su Nazionalismo e neofascismo al confine orientale negli anni tra il 1945 e il 1975. Finita la guerra, la fragile democrazia italiana era stata messa a repentaglio più volte: il confine orientale era stato il contenitore di sommovimenti brutali, di arditi tentativi di ritorno ad un passato permeato dalle ombre delle teorie nazionaliste e fasciste.
Né era semplice condurre a termine il lavoro sulla storia dell’Esodo dall’Istria nella fase tra il 1945 e il 1956. Infinite polemiche e, a volte, vere e proprie minacce furono la conseguenza di questi studi, condotti sulle fonti d’archivio, sulla stampa, sulle testimonianze orali. Le istituzioni regionali e provinciali ebbero allora il coraggio di sostenere tali linee di ricerca che, intorno a Giovanni Miccoli, vedevano impegnati gruppi di giovani che si apprestavano allora ad un lavoro impegnativo, anche perché la loro guida non ammetteva scorciatoie di comodo. Giovanni Miccoli non aveva la pretesa dell’imparzialità dello storico, soprattutto se intesa come maschera destinata all’immobilità dell’accademia. Per lui che, con rimpianto, onoriamo, la storia doveva essere “l’occasione per affermare che un mondo qualitativamente nuovo deve cominciare” (in Nazionalismo e neofascismo nella lotta politica al confine orientale 1945 – 1975, IRSML – FVG, Trieste 1977, p. IX.). Un moto di rottura, un impegno etico e civile.
Nella nostra tormentata contemporaneità, molto è cambiato: nuove acquisizioni sono state possibili, molti giudizi storici sono stati rivisti in un processo di ricerca che continua, imponendo nuovi interrogativi e nuove risposte. Non esiste, tuttavia, un percorso ideale di progresso, né alcuno si può fregiare di una patente di perfezione, accumulando semplicemente dati e fonti inedite: l’insegnamento di Giovanni Miccoli resta a tutti gli effetti una bussola d’orientamento che non possiamo né vogliamo accantonare.

Anna Vinci

 

Il ricordo del prof. Tristano Matta

  

Uno dei lasciti più significativi cui l'impegno di Giovanni Miccoli quale presidente dell'Istituto ha avuto il merito di dar vita è il periodico del nostro Istituto, “Qualestoria”, oggi giunto al suo quarantacinquesimo anno di pubblicazione. Fu infatti sua l'iniziativa di dare vita - nel lontano ottobre del 1973 - a quel Bollettino dell'Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, che cinque anni dopo avrebbe assunto la ancora attuale testata.
Si trattava, nei primi anni e fino al 1980, di un fascicolo quadrimestrale di grande formato, dalla veste editoriale tipica delle riviste di discussione e di dibattito di quegli anni Settanta. Anni in cui gli Istituti per la storia della resistenza in tutta Italia cominciavano ad impegnarsi in un lavoro di ricerca, dibattito e divulgazione che superasse gli ambiti cronologici e tematici della lotta di Liberazione antifascista, per iniziare a caratterizzarsi come Istituti di storia dell'età contemporanea a tutto tondo. Nei primi anni di vita, il Bollettino fu portavoce del dibattito e dell'attività di ricerca svolta in Istituto, ma anche di discussione sulla funzione della ricerca storica; furono poste le basi tematiche portanti su cui si sarebbe intervenuti più volte negli anni successivi: il filone resistenziale non declinato solo in chiave locale, la vicenda simbolo della Risiera di S. Sabba, l'attenzione verso la storiografia slovena, la ricerca sulla classe operaia e il mondo della fabbrica, l’impegno nei confronti del mondo della scuola, sia sul versante della storia dell'istituzione, che su quello della didattica della storia. Almeno a partire dal 1977 la rivista ha iniziato ad assumere via via con maggiore chiarezza il carattere – ormai da decenni consolidato – di rivista di storia contemporanea con un sempre maggiore spazio dedicato a saggi e contributi di ricerca scientifica.
Giovanni Miccoli ne assunse da subito la direzione, che avrebbe mantenuto fino al 1985 e successivamente ripreso dal 1991 al 1995. Com’era ovvio attendersi da una figura della sua portata, non si trattò mai di una direzione tradizionalmente accademica, ma di un lavoro di stimolo volto a coniugare in termini sempre critici e rigorosi ricerca storica ed impegno civile, compito che egli stesso indicò come ambizioso profilo e programma di lavoro della rivista fin dall'editoriale nel primo numero. Una direzione quindi attenta al nuovo, ed in particolare all'esigenza di allargare lo studio della storia contemporanea anche ai non addetti ai lavori, ma ben vigile nell'evitare di cadere nell'apologia, nella propaganda ideologica, nell'uso politico della storia, rischi che in quei convulsi anni Settanta, caratterizzati dalla contestazione studentesca, erano sempre presenti. Una direzione, soprattutto, capace di aprire le pagine della rivista oltre che a storici e studiosi affermati anche a moltissimi giovani alle prime armi, che nel confronto di idee e nella discussione che allora caratterizzava la preparazione dei vari numeri, avevano modo di crescere e formarsi, sia sul piano del metodo che su quello dell'impegno. Basta scorrere l'elenco dei componenti del comitato di redazione di quei decenni, per verificare questa capacità di attrarre al lavoro di ricerca e di divulgazione molti giovani, in seguito passati all'insegnamento universitario o nella scuola media: mossero i primi passi sul terreno della ricerca storica accanto al nucleo di studiosi che Miccoli era riuscito via via a avvicinare all'Istituto ed alla rivista. Il risultato di questo impegno – credo possiamo affermarlo dopo tanti decenni – è stato quello di dar vita e poi far crescere un prodotto editoriale non limitato al pubblico dei soci e di quanti seguono con interesse l'attività dell'Istituto, ma rivolto anche al più vasto pubblico degli studiosi, degli insegnanti e degli appassionati di storia contemporanea in una dimensione non solo locale, un 'opera la cui ricaduta sul piano della cultura storica della nostra regione non può certo ancora essere pienamente valutata, ma certamente destinata a lasciare il suo segno.
Quanti gli sono succeduti nella direzione della rivista nel corso del tempo, credo abbiano sempre cercato – nella misura consentita dalle loro diverse attitudini e sensibilità – di tenere ben presente la “lezione” del suo fondatore. Forse non sempre ci sono riusciti. Chi scrive queste dimesse, ma affettuose, righe in suo ricordo si è in più occasioni chiesto, di fronte a quelle situazioni difficili che ogni tanto caratterizzano un lavoro di direzione di una rivista, come si sarebbe comportato Giovanni Miccoli. Cercando la risposta nella memoria del suo indimenticabile magistero.

Tristano Matta

 

Il ricordo della prof.ssa Liliana Ferrari

 

Per cominciare una constatazione: in tanti anni di frequentazione e di comunanza per quanto riguarda il settore di studi, la storia della Chiesa, la sola esperienza continuativa di collaborazione con Giovanni Miccoli, lo studioso che mi è stato maestro, ha avuto luogo all'interno dell'Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia. E non è stata sui temi specifici di storia dell'organizzazione ecclesiastica e del mondo cattolico, bensì su quelli legati alla storia recente del territorio.
Miccoli se ne stava occupando già nei primi anni settanta, nei suoi corsi universitari, che andavano a toccare i rapporti tra chiesa e fascismo sul confine orientale. Le figure di Santin, Margotti e Fogar erano oggetto di lavoro e dibattito, cui partecipava un gruppo di studenti un po’ più anziani di me, che nell’anno accademico 1971-72 ero matricola. Era un bel gruppo, che insieme a un Miccoli allora quarantenne o giù di lì coniugava studio e impegno politico, e riuscì a pubblicare anche alcuni numeri di una rivistina. Qualche nome: Anna Vinci, Franco Belci, Tristano Matta, e altri ancora. In quegli anni nell’Istituto di storia (che stava per trasformarsi in corso di laurea) il tema della snazionalizzazione ad opera del fascismo era uno dei più frequentati, ed i rapporti fra università e Istituto per la resistenza (come tutti lo chiamavano) molto stretto, grazie anche all’indimenticato Rino Sala. Conservo, ed ho a mia volta utilizzato in un paio di corsi, una preziosa dispensa contenente la trascrizione di documenti dell'Archivio centrale dello stato sull'argomento (allora l'Archivio di stato di Trieste era molto meno accessibile, anche per il vincolo dei cinquant'anni, che quello romano interpretava con molto maggiore elasticità).
Il mio primo ingresso in Istituto, ed anche l'inizio di un rapporto più personale col Miccoli-professore (segnato dall'uso del dialetto e presto dal tu) fu il terremoto. La mattina seguente si formò in via dell’Università, per iniziativa sua oltre che di Rino Sala e di qualche altro) un gruppo di volontari, studenti e docenti dell'allora giovane corso di laurea in storia, che con assoluta naturalezza trovò ospitalità nelle stanzette della sede di allora dell'IRSML, in piazza Verdi. Presto fu stabilito un contatto con Maiano. Io fui assegnata al telefono e nel mese successivo aspettai invano di partire, mentre regolavo l’avvicendarsi delle squadre. Alla fine di giugno partii invece per Roma, a raccogliere materiali per la tesi di laurea. Un gruppo di studenti, questi sì della mia "leva" (mi vengono in mente i nomi di Francesca Ulliana, Isabella Chiopris, Furio Bednarz, Cristiana/Kitty Colummi) parteciparono invece attivamente all'esperimento didattico che continuò per tutta quella estate nella zona del sisma. La ricerca di una saldatura tra lavoro intellettuale, sociale e politico, era allora sistematica.
In Carnia Giovanni Miccoli ebbe modo di conoscere i sacerdoti più in sintonia con i contenuti del concilio Vaticano II, diversi de quali più tardi si sarebbero segnalati per impegno autonomista. Sul piano scientifico questo segnò per Giovanni l'inizio dell'interesse per la storia della chiesa friulana, che avrebbe prodotto molta ricerca negli archivi e purtroppo pochi scritti suoi, ma qualche ottima tesi di laurea, che a tutt'oggi meriterebbe la pubblicazione. Restare con la gente di Francesca Ulliana è l'unica pubblicazione che ricordo, frutto di quel periodo. Ricordo anche (e qui è più esplicito il collegamento con i filoni coltivati dagli istituti per la Resistenza) l’interesse per il clero delle valli del Natisone, che imparavamo allora a chiamare Benečja.
La vera collaborazione per me sarebbe iniziata dopo la tesi (tutt'altro l’argomento: l'Azione cattolica italiana, versante statuti e regolamenti), discussa la quale, nell'estate del 1977, fui convocata da Miccoli, che mi propose di partecipare ad una ricerca (retribuita) che con l’Azione cattolica non aveva pressoché niente, o comunque poco, a che fare. Oggetto: l’esodo dall’Istria. Si trattava di un progetto triennale, che avrebbe coinvolto un gruppo di giovani ricercatori, proprio nell'Istituto per la resistenza, che lo aveva promosso. Fu il mio primo lavoro, che avrebbe prodotto tre anni dopo (1980) il volume Storia di un esodo. Gli altri componenti del gruppo: Cristiana Colummi, Gianna Nassisi e Germano Trani.
Mettere a tema l’esodo era una scelta a dire poco coraggiosa, da parte dell'Istituto. Uno degli argomenti su cui (non da una sola parte) pareva opportuno non parlare. Come le foibe, sulle quali peraltro Miccoli era intervenuto già nel 1976, con un importante intervento pubblicato dal Bollettino dell’IRSML (poi “Qualestoria”).
Per la ricerca sull’Esodo Miccoli propose di reclutare, tra i neo-laureati, quelli più ignoranti in materia. Non solo privi di connessioni famigliari o personali (ce ne sarebbero stati di bravi, mi è stato assicurato in seguito), ma proprio terreno vergine. Tanto poco ne sapevamo che, dopo la prima riunione insieme alla commissione paritetica formata da membri dell'istituto e da esponenti del mondo esule, decidemmo di cominciare dal bell’inizio, barricandoci in Biblioteca Civica senza tenere conto dei suoi suggerimenti, per studiare e chiarirci le idee a modo nostro. La cosa presentava qualche rischio, mi rendo conto ora, ma va detto che nel corso di tutta quell'esperienza, durata tre anni, al nostro gruppetto fu lasciata la più ampia libertà di manovra. Aiuto sempre, dall'istituto e da Miccoli, naturalmente verifiche periodiche, ma condizionamenti mai, sino alla revisione finale, condotta a marce forzate, per rispettare i tempi, nel dicembre del 1979: una sfacchinata alla quale Miccoli partecipò insieme a me e a Cristiana Colummi (gli altri due membri del gruppo nel frattempo avevano trovato lavoro altrove) vacanze di fine anno comprese, in piazza Verdi. Il suo intervento in questa fase particolarmente delicata (si prevedevano polemiche) come sempre fu rivolto a rafforzare la tenuta del racconto sul piano scientifico. Le sue "crocette" a margine, servivano a mettere a fuoco, a trovare l'espressione adeguata o ad introdurre il distinguo che rendesse la complessità. Non parlò, né alluse mai, all’opportunità di dire o tacere. Se in qualche caso attenuare si doveva, era perché la documentazione su questo o quel punto non era sufficiente, ed il lettore andava in questo caso avvertito.
Dopo quell’esperienza, che posso considerare per me l’equivalente di un dottorato di ricerca (allora in Italia non esisteva) le occasioni di collaborare nell’ambito dell’istituto si sono diradate. Ho partecipato ancora, durante la sua direzione, al comitato di redazione di “Qualestoria”, poi ci siamo visti solo in università, impegnati in ricerche diverse. All’epoca stava cominciando nuovamente a prevalere in Miccoli l’interesse per i grandi temi, in particolare l’antisemitismo, nella sua connessione con la Chiesa ed i mondi cattolici. Da qui la serie di importanti lavori, uno per tutti la monografia sui “silenzi” di Pio XII, che ha suscitato interesse in campo internazionale. Io vagabondavo per altre piste, che mi avrebbero riportata al territorio, ma stavolta nella cornice del goriziano Istituto di storia sociale e religiosa.

Liliana Ferrari