Le miniere dell'Arsa e la sciagura del 28 febbraio 1940
Nel novembre 1918 le truppe italiane occuparono la Venezia Giulia. L’annessione del territorio orientale alla Nazione fu rapidamente avviata. In tale contesto, le miniere di Carpano-Vines (presso Albona, nell’Istria orientale), dal 1880 di proprietà del gruppo viennese Trifailer, cambiarono ragione sociale con l’ingresso del capitale italiano e divennero, nel tardo 1919, “Società anonima carbonifera Arsa”. Tra gli azionisti figurava, in questo periodo, l’imprenditore Giovanni Agnelli, a capo della Fiat.
Dopo aver attraversatota aattraversoa,eutte le misure assistenzialiio modello secondo i criteri di edilizia assiostenziale varie traversie produttive, aziendali e finanziarie, nel 1935 l’Arsa vide acquisire il 60% delle proprie azioni da parte dell’Azienda Carboni Italiani, un ente pubblico che – negli indirizzi della politica economica autarchica - si occupava della razionalizzazione e del potenziamento dell’industria carboniera nazionale. Il complesso diventò ausiliario alla produzione di guerra e le maestranze furono sottoposte ad una rigida sorveglianza disciplinare. La produzione venne incrementata, raggiungendo nel 1939 il livello di un milione di tonnellate di carbone estratto; all’epoca quasi 9.000 operai erano impegnati nelle attività lavorative. Per far fronte alle esigenze abitative di una manodopera in crescita, nel 1937 era stato costruito il villaggio di Arsia, secondo i criteri assistenziali e paternalistici dell’edilizia popolare del regime fascista.
La miniera fu sconvolta da numerosi incidenti: quello del settembre 1937 procurò 13 vittime; quello del 1939 altre sette. La sciagura del 28 febbraio 1940 ebbe esiti ancor più catastrofici. Un incendio di polvere di carbone nel quindicesimo livello della Camera I (a circa 240 metri sotto l’imbocco del giacimento) della miniera Carlotta, in località Carpano, provocò 185 vittime e 146 feriti tra i lavoratori, quasi tutti sudditi del Regno d’Italia di nazionalità italiana, croata, slovena. La sciagura ebbe luogo attorno alle 04.30 del mattino, mezz’ora prima della fine del turno di lavoro. La fiammata provocata dall’esplosione si irradiò nelle gallerie e nei cantieri, investendo la massa dei lavoratori che defluivano e procurando crolli, franamenti, proiezione di materiali e l’invasione dei cantieri contigui da parte di una nube ad alto contenuto di ossido di carbonio. Intossicazione, ustioni, lesioni procurate dagli effetti dinamici dell’esplosione furono le cause di morte dei minatori. Se le conseguenze non furono più drammatiche lo si dovette al fatto che molti operai si erano già avviati alle zone di uscita. Molti degli scampati soffrirono dei sintomi di avvelenamento o di ferite e contusioni. I primi soccorsi furono prestati dal personale in entrata o da quello uscente che era stato in grado di raggiungere l’imbocco della miniera. Le squadre di salvataggio iniziarono ad entrare all’interno della zona incidentata dopo le 06.00.
Le operazioni di recupero delle salme, lo sgombero e il risanamento delle gallerie e dei pozzi, le sistemazioni di sicurezza continuarono nei giorni successivi. Gli effetti morali dell’incidente e il risentimento per le inadempienze della direzione in materia di sicurezza furono notevoli fra gli operai. La ripresa del lavoro da parte delle maestranze avvenne lentamente (a tre settimane dal disastro, il 40% degli operai si asteneva ancora dall’entrare in miniera); molti lavoratori si licenziarono. Tutto ciò, nel clima di unanimismo imposto dal regime e in un contesto di accelerazione della produzione ai fini di una guerra imminente, comportò non poche preoccupazioni nelle forze di sicurezza e all’interno del partito fascista, che dispiegarono tutte le misure praticabili in merito all’ordine pubblico e all’assistenza.
La supposizione che a provocare la tragedia fosse stato il brillamento difettoso di qualche mina, ipotesi accreditata in un primo momento, ottenne poi nei pareri tecnici minor credito, per diverse ragioni e indizi. Fu scartata subito dalle autorità di pubblica sicurezza anche l’ipotesi di un atto terroristico. In realtà, gli accertamenti tecnici dopo l’incidente presero in considerazione le potenziali dinamiche dello scoppio, ma non riuscirono a constatare con chiarezza né il luogo di partenza dell’esplosione, né la causa occasionale della sua origine. Rimase infatti nel novero delle più remote congetture il fatto che l’esplosione potesse essere scaturita da una perdita di aria compressa, in uso per azionare i mezzi pneumatici, o da qualche scintilla. La presenza nella miniera di consistente pulviscolo di carbone sospeso, facile alla combustione e all’autocombustione, ad alto potere detonante per il contenuto di metano e capace di produrre elevate quantità di ossido di carbonio, fu considerata certa e determinante. Meno sicura, invece, apparve l’ipotesi dell’accumulo di grisou, rilevato in precedenza nelle miniere di Carpano soltanto in punti determinati delle gallerie, carenti di ventilazione o a fondo cieco.
Furono nondimeno poste in evidenza - in maniera sfumata dalla relazione tecnica dell’ispettore del Corpo Reale delle Miniere, in forma di maggior severità dalle memorie riservate degli organi politici e dello stato - alcune concause o cause remote che avrebbero potuto creare una condizione favorevole al sinistro, o contribuire a determinarlo o ancora a peggiorarne gli esiti. Vennero infatti rilevate carenze e omissioni nelle misure di prevenzione e sicurezza (innaffiamento delle pareti delle gallerie prima del brillamento delle mine, preparazione accurata dello stesso, accensione delle mine nell’orario prestabilito, divieto di introduzione di materiali infiammabili, ventilazione efficace). Furono riscontrate pure gravi lacune nell’organizzazione del lavoro e del personale: ritmi di lavoro troppo intensi; accento posto sulla produzione fine a se stessa, con implicite ricadute sulla sicurezza; scarsità di personale tecnico, il cui servizio in miniera si limitava perciò al solo mattino (la tragedia ebbe luogo di notte); organizzazione permissiva nel sottosuolo, a fronte di una ferrea disciplina del lavoro, soprattutto in termini di sorveglianza, negli altri ambienti dell’azienda; scarsa competenza e comportamento negligente nella maggior parte dei quadri intermedi.
In alcune relazioni istituzionali vennero rimarcate le pesanti responsabilità della dirigenza e della direzione tecnica dei lavori dello stabilimento. Una memoria parla, ad esempio, di “mancanza assoluta di affiatamento fra la dirigenza e la massa operaia”. Pur di incrementare l’estrazione del prodotto, la direzione non avrebbe dato corso alle indicazioni degli ingegneri del Corpo Reale delle Miniere, né a progetti che tenessero in conto uno sfruttamento della miniera in condizioni di maggior sicurezza (ad esempio con il potenziamento degli estrattori d’aria per evitare la dispersione del pulviscolo), come quello redatto dall’ing. Augusto Battini, precedente - e apprezzato - direttore della miniera.
Lo scoppio della Seconda guerra mondiale, di lì a qualche mese, e l’urgenza dell’aumento della produzione tacitarono ben presto la ricerca delle cause e delle responsabilità. Le vicende del conflitto e del dopoguerra ne allontanarono il ricordo. La sciagura, una delle più gravi della storia mineraria d’Italia, venne rimossa.
Bibliografia
L'infortunio del 28 febbraio 1940 nella miniera di carbone dell'Arsa (distretto minerario di Trieste), in "Relazione sul servizio minerario", Anno LI, n. 66, Corpo Reale delle Miniere, Roma 1940, pp. 263-265.
A. Millo, A.M. Vinci, Azienda, sindacato e classe operaia nelle miniere dell'Arsa, in S. Bon Gherardi, L. Lubiana, A. Millo, L. Vanello, A.M. Vinci, L'Istria tra le due guerre. Contributi per una storia sociale, Ediesse, Roma 1985.
M. Milevoj, Carbone istriano, ultimi fuochi, con fotografie dal Museo Popolare di Albona, Jurina i Franina, in "Rivista di varia cultura istriana", n. 59, inverno 1995, Libar od Grozda, Pola, p. 18-25.
D. Zandel, Una storia istriana, Rusconi, Milano 1987
Arsia 28 febbraio 1940, Circolo di cultura istro-veneta «Istria», Trieste 200
Documenti
Selezione di documenti provenienti dall’Archivio Storico di Pisino (H.A.P.)
Busta 322, 1940, X/3