L'Arsa
di L. Santin
«In occasione del grave scoppio avvenuto nelle miniere carbonifere dell’Arsa, che causò la morte di molti operai, penetrava ripetutamente, sprovvisto di maschera, nelle gallerie invase dal gas letale e con tenace azione riusciva a salvare dieci minatori. Accortosi infine che un suo compagno mancava all’appello, scendeva di nuovo nella zona pericolosa, ma trovava la morte accanto a colui che voleva salvare. Esempio mirabile di generoso, indomito ardire».
Questa la motivazione della medaglia d’oro al valor civile attribuita ad Arrigo Grassi, meccanico di miniera. La si può trovare nel sito web del Quirinale.
Arrigo Grassi, in una terra che le vicende belliche di confine hanno popolato eroi e martiri variamente discussi, è un eroe e un martire vero, e indiscutibile. Esempio di coraggio e testimone di solidarietà spinta sino al sacrificio della vita.
Ma nessuno, in Italia, in Croazia, si ricorda di lui, che è morto dopo aver salvato dieci vite ed essersi calato nuovamente nell’inferno sotterraneo dell’Arsa, a morire nel tentativo di recuperare un compagno disperso.
Non c’è un monumento non c’è una lapide, non c’è una via che ne tenga viva la memoria. E così è anche per Giuseppe Nascini, sorvegliante di miniera, e per Matteo Viscovich, minatore, entrambi medaglie d’argento, per Furio Barontini perito minerario, uomini che si sono prodigati nei soccorsi in quel tragico 28 febbraio 1940.
E’ stata proprio l’incredibile rimozione di cui sono stati oggetto i minatori, la sciagura, la storia stessa della miniera e di Arsia, a spingermi a fare delle ricerche in merito.
Ricerche di tipo giornalistico, intendo precisarlo e sottolinearlo perché non ho nessuna pretesa di fornire un quadro compiuto e inquadrato di questa vicenda.
Qui vorrei solo raccontare il mio caotico e molto incompiuto ravanare nella storia, restituire, naturalmente con la medesima disorganicità che ha contraddistinto l’indagine, alcune cose incontrate, le emozioni provate.
Preliminarmente ci terrei però a mettere le cose a posto: giorni fa, ad Albona, Livio Dorigo, presidente del Circolo “Istria”, mi ha attibuito un merito che non ho, quello di avere messo in moto le cose, che hanno portato anche alla compilazione di una brochure, poi tradotta in croato.
Allora, io dell’Arsa non ne sapevo assolutamente niente – nome a parte – sino a quando un buon paio d’anni fa il collega ed amico Elio Velan, giornalista del Glas Istre, non è venuto a trovarmi, masticando amaro, perché tutti facevano un gran palare di Marcinelle, dimenticando la più grande tragedia mineraria avvenuta nei confini italiani, con più morti, oltre a tutti, tragedia che fu, in certo modo madre di Marcinelle.
Quindi lui avrebbe più titolo di me a parlarne. Ha fatto, tra l’altro, anche delle trasmissioni alla Rai e a TeleCapodistria.
Comunque la sua segnalazione è bastata ad accendermi. La vicenda mi è sembrata più che degna di attenzione, una bella storia giornalistica. Tremenda, naturalmente, ma con un’epicità intensa, e collocata in una particolare intersezione di quella che è la grande storia.
Tra l’altro anche gli scenari più profondi erano accattivanti, l’interesse dimostrato dai Napoleonidi arrivati qui ad inizio ’800, la presenza di nomi famosi quali i Rotschild, i triestini Brunner, quelli della Banca Commerciale, e poi i torinesi Agnelli.
In seguito, andando avanti con le ricerche, parlando con testimoni diretti, con la gente di Arsia, leggendo gli scarni documenti dell’epoca, mi sono poi lasciato “prendere” dal contenuto umano.
Perché i morti dell’Arsa sono dei figli di nessuno. A causa delle vicende di confine sono stati considerati dall’Italia italiani spuri, mezzi croati. E venivano invece da mezza penisola. I croati, viceversa, li hanno considerani un portato del fascismo, quindi da non commemorare.
Poi ci sono stati gli infoibamenti di Vines, che per Galliano Fogar discenderebbero anche dalla tragedia del 1940. Non credo che sia così, ma certo l’episodio ha contribuiti a sigillare nel silenzio tutta la storia.
Così come ha contribuito un altro gravissimo incidente, accaduto nel 1948, nel quale perse la vita un imprecisato ma cospicuo numero di minatori, in gran parte prigionieri tedeschi.
Di quanto accaduto nel ’48 si sa ancora molto meno di quanto non si conosca dello scoppio del’40.
Era un periodo politicamente molto pesante, ancora di comunismo di guerra e le autorità jugoslave, che teoricamente avrebbero potuto ricordare i fatti del ’40 attribuendoli al Regime, cancellarono definitivamente la memoria di entrambi gli incidenti.
I primi riscontri li ho trovati sulla stampa. Un trafiletto di poche righe sul “Piccolo” di Trieste. Si parla di un’esplosione che ha investito alcune centinaia di operai del cantiere 31: 60 morti e cento feriti leggeri. Si riferisce che, già la sera stessa dell’incidente, la miniera è stata tutta “ispezionata” e che la situazione è sotto controllo.
Profilo ultrabasso, dunque, emergerà poi, nelle carte, che solo l’agenzia “Stefani” quella governativa, è titolata a fornire informazioni. Ma in prima pagina c’è qualcosa di più interessante. Ricordiamo che è scoppiata la guerra, ma che l’Italia non si è impegnata. Traccheggia, aspettando di vedere come vanno le cose. E’ appena partito da Roma il sottosegretario statunitense Sumner Welles, interessato a capire il futuro atteggiamento italiano, e si prepara già la visita di von Ribbentrop, ministro degli Esteri della Germania nazista, propedeutico all’incontro tra Mussolini e Hitler, che si terrà al Brennero a metà marzo.
In prima pagina del Piccolo, dunque, immagino anche degli altri giornali, si parla, con toni enfatici, dei blocchi navali che impediscono alle carboniere tedesche di rifornire l’Italia.
Di qui, probabilmente, l’abbandono delle misure di sicurezza nelle miniere dell’Arsa. I rapporti dei Carabinieri, dopo le prime indagini, riferiscono che – a quanto si diceva – dopo le volate di mine non si procedeva a lavare con getti d’acqua le gallerie, per abbattere il pulviscolo di carbone. Sempre di sicurezza parla una lettera dell’ingegner Augusto Battini (altrove citato come Batini), a un ignoto destinatario, reperita in un magazzino della Regione, a Valmaura. Sapete che in virtù dello statuto speciale di autonomia le competenze in materie di miniere sono passate dallo Stato alla Regione.
E quindi molte carte conservate negli uffici ministeriali triestini sono adesso stivate in un deposito. Abbastanza ben conservate, cosa che non si può dire di quelle romane.
Faccio un inciso, sono riuscito a contattare un gentilissimo dirigente del settore, appunto nella capitale, il quale ha fatto delle inutili ricerche tra le carte conservate al ministero. “Sa dottore – mi ha confidato poi – tutta la roba di prima della guerra è finita in un enorme capannone sulla Salaria. Ci sono stati incendi, alluvioni, bivacchi di barboni. Questo hangar pullula di ratti enormi, una volta un collega mio ha provato ad entraci e ne è uscito con i capelli ritti per lo spavento».
Inutile dire che ho rinunciato alle ricerche.
Torniamo all’ingegner Battini, un toscano sposato con un’albonese, che era stato rimosso poco tempo prima dell’incidente, e trasferito alle miniere di grafite di Val Chisone. Scrive, subito dopo lo scoppio, che si aspettava una cosa del genere.
Che si fossero forzati i ritmi estrattivi a scapito della sicurezza, è del resto anche la tesi di Giulio Cuzzi, ingegnere minerario, figlio d’arte, che nel ’40, adolescente, era con il padre ad Arsia. Una sua interessante testimonianza è stata poi riportata nel libretto del Circolo Istria.
Qualcosa, forse più che nel Piccolo, si trova in Vita Nuova, l’organo della curia vescovile triestina. Il presule Antonio Santin si reca infatti ad Arsia poco dopo l’incidente, così come fa quello di Pola. Poi Vita Nuova stigmatizzerà il fatto che le società operaie organizzino delle serate danzanti volte a raccogliere fondi per vedove e orfani.
Va bene la solidarietà, scrive il giornale, ma con un po’ di moralità.
Del materiale interessante, che ho consultato solo in parte, credo in piccola parte, è poi conservato nell’archivio di Pisino. Si tratta di schede relative agli interventi del governo a favore dei parenti delle vittime. Ci sono le condizioni patrimoniali delle famiglie: la casa, un campo, tre pecore, un maiale, cose del genere, e le provvidenze elargite dal Comune e dallo Stato, che si mossero, a quanto sembra.
A Pisino venne realizzato un collegio per gli orfani, di cui nessuno aveva saputo dirmi nulla, neppure al seminario, nel cui comprensorio si trovava l’edificio. Poi proprio negli scorsi giorni, è arrivato dalla Toscana ad Albona il signor Tamarri, figlio di una delle vittime dell’incidente, che era stato appunto accolto nell’orfanotrofio.
A Pisino c’è anche la lista degli avanguardisti precettati per fare cordone, in turni di otto ore, attorno all’imboccatura dei pozzi da cui si estraevano i corpi delle vittime.
Tra questi Claudio De Comelli, all’epoca quindicenne o sedicenne. L’ho incontrato a Roiano dove viveva e mi ha raccontato la sua esperienza. Non lo ha voluto fare in forma ufficiale – non so perché, forse perché suo padre poi è stato infoibato a Vines.
La sua testimonianza concide con quella del professor Guido Miglia, giovanissimo insegnante elementare.
Mi hanno restituito più l’atmosfera, che dati significativi. Per esempio, il recupero di corpi gonfi, probabilmente per la putrefazione, che venivano “sgasati” inizialmente con un colpo di piccone, poi con delle grandi siringhe.
Un altro testimone dell’epoca è stato Dino Hodej, figlio di un bandaio della zona, il quale ha ricordato come il padre si fosse trasferito in pianta stabile nell’officina, dove anche dormiva qualche ora, per fare le decine e decine di casse di zinco necessarie alle inumazioni. Secondo la sua testimonianza, ne servivano 150, che richiesero otto giorni di lavori, lavori ai quali partecipò come aiutante d’emergenza anche lui.
La vedova di Bepi Nieder, poesta istriano, che oggi vive a Roma, mi ha raccontato di essersi sposata il 3 marzo 1940, in Albona. Al rito seguì un pranzo in famiglia, e, alla fine, il fratello della sposa imbracciò la fisarmonica. Ma il parroco lo fermò. «No, fio mio, ogi per tua sorela xé festa, e semo contenti per ela. Ma no xè momenti de far musica».
La Nieder mi ha raccontato anche di come la miniera scandisse la vita albonese, la notte, quando non dormiva, sentiva il passo cadenzato dei lavoratori che si radunavano per andare al turno di notte, e così sapeva che ora fosse.
Sia Miglia che De Comelli mi hanno raccontato di una storia che circolava. Ad Arsia arrivò Ettore Muti, segretario del partito – questo è un dato confermato dalle cronache giornalistiche, che parlano di incontri con il prefetto di Trieste, con il podestà, come se si trattasse di una visita di cortesia, senza alcun accenno alla miniera.
Comunque Muti venne in visita, e i tirapiedi del regime allestirono un piccolissimo rinfresco, vermuttino, biscottini. Muti, indignato, rovesciò il tavolo con un calcio, e poi, affranto, mormorò: “Cosa dirò al Duce, adesso?”.
E’ una vulgata, credibile, dato il carattere dell’uomo. Tra l’altro la preoccupazione poteva essere per i morti, ma anche per la coltivazione della miniera.
La quale miniera, avrà anche dato lignite di scarsa qualità, ma in quel periodo, con le macchine che andavano a gasogeno, con l’industria pesante che doveva preparare la guerra, era qualcosa di molto importante per l’Italia.
Si trattava della più grande miniera del Paese, e della massima fonte di approvvigionamento energetico. Quando i giovani verranno mobilitati per la guerra, qualche mese dopo l’incidente, la direzione chiederà la deroga per impiegarvi minatori a partire dai 14 anni di età. Non so se venne concessa o meno.
Significativo quanto dirà di Arsia, qualche anno dopo, Alcide De Gasperi, discutendo della cessione dell’Istria alla Jugoslavia.
«Noi siamo pronti a riconoscere entro i limiti del possibile i diritti e gli interessi iugoslavi, ma non sarebbe equo che le miniere dell'Arsa che potrebbero rendere all’Italia l'80% della produzione nazionale di carbone, le vengano tolte».
Pochissimi giorni dopo l’incidente, il consiglio dell’Ente nazionale Carboni verrà decapitato e sostituito. Ne entrerà a far parte anche il figlio di Nazario Sauro. Non sappiamo se le due cose sono in relazione. Certo, di regola i tempi della burocrazia romana sono più lunghi, però, considerati il caso grave, il regime assolutistico, ed il periodo prebellico, la cosa è ipotizzabile.
Il 28 ottobre del 1940 - l’Italia è ormai scesa in guerra – in occasione dell’anniversario della marcia su Roma ad Arsia viene tenuta una commemorazione delle vittime del 28 febbraio, presente il sottosegretario alle Corporazioni Tullio Cianetti.
Questo il testo della sua allocuzione, nel più pretto stile littorio. Allocuzione con la quale chiudo questo mio intervento.
«Ci inchiniamo con fiero, virile dolore, con profonda commozione, a questi soldati, a questi Eroi del lavoro, che sull’altare dell’indipendenza economica della Patria sono caduti al loro posto di combattimento.
Salutiamo nei minatori dell’Arsa - che nella tenace, oscura fatica d’ogni giorno servivano il Paese con le armi della civiltà in pugno e che nelle viscere della tormentata loro terra hanno offerto in olocausto la vita per garantire alla Nazione il prezioso elemento necessario alla sua potenza – le avanguardie del Popolo nostro, impegnato nelle trincee di prima linea, in una tra le più aspre e gloriose battaglie per quell’autarchia che, secondo il comandamento del Duce, deve emancipare l’Italia da ogni straniera servitù.
E nell’esaltazione dei nuovi Martiri del lavoro, non dimentichiamo i valorosi che con abnegazione degna del più alto elogio, con disprezzo del pericolo gravissimo, obbedendo ad un impulso nobilissimo di altruismo e di fraternità, si sono gettati nell’ancor fumante incendio dei pozzi e dei corridoi sotterranei per strappare i feriti all’avida e cieca furia distruttrice delle fiamme, per recuperare in un disperato tentativo di salvazione le vittime della tragica sciagura.
Mentre ci inchiniamo al dolore delle famiglie colpite, cui deve in quest’ora di strazio essere di conforto il commosso palpito di tutta la nazione, rivolgiamo un pensiero di fervida solidarietà ai feriti, insieme all’augurio che le loro sofferenze trovino lenimento, e le offese membra rapida guarigione.
I Morti dell’Arsa, come i generosi Caduti d’ogni umana conquista, illuminano di luce fulgidissima l’inarrestabile marcia delle nuove falangi».