Da Campoformido alla Prima guerra mondiale
Raoul Pupo
Prima di iniziare questa rapidissima cavalcata lunga più di un secolo, ricordiamo in due parole qual’è l’area geografica di cui stiamo parlando: è il territorio che dal fiume Isonzo arriva sino alla displuviale alpina orientale, cioè fino alla linea immaginaria che scende dal confine con l’Austria tedesca per arrivare al golfo del Quarnaro, comprendendo quindi la valle dell’Isonzo con i suoi affluenti, il Carso triestino e goriziano e la penisola istriana. A quest’area compatta si aggiunge la contigua città di Fiume e poi – dopo un’interruzione di alcune decine di chilometri – una lunghissima fascia litoranea consistente nella costa dalmata fino alle bocche di Cattaro (che attualmente si trovano in Montenegro) e nella miriade di isole prospicienti. Questo è il territorio che nella cultura geopolitica italiana viene chiamato Venezia Giulia e Dalmazia e nel quale a partire dal 1797 – cioè dal trattato di Campoformido che segna la fine della repubblica di Venezia – avvengono quasi simultaneamente due fenomeni: la nascita e la crisi dell’italianità adriatica.
Vien da domandarsi: ma com’è possibile? Lo è, perché entrambi i fenomeni sono conseguenze di un processo più generale, quello della nazionalizzazione, che riguarda con ritmi diversi tutti e tre i gruppi linguistici storicamente insediati sul territorio, vale a dire quello italiano, quello sloveno e quello croato. Ne segue che quello giuliano-dalmato è un caso da manuale di nazionalizzazione competitiva di gruppi linguistici diversi residenti nella medesima regione: una situazione certo non esclusiva dell’Adriatico orientale, ma tipica invece di tutta la vastissima area dell’Europa centro-orientale.
I ritmi della nazionalizzazione sono diversi, perché diverse sono la struttura e la storia dei tre gruppi. Cominciamo con gli italiani, a proposito dei quali dovremmo meglio dire venetofoni, perché la lingua italiana dell’Adriatico è quella veneta, non quella toscana – con la sola eccezione della repubblica di Ragusa, che nel medioevo adottò come lingua ufficiale il toscano, in odio ai veneziani – ma comunque dietro l’uso linguistico veneto sta tutto l’enorme spessore della cultura italiana. Anche per l’epoca prefazionale quindi, è legittimo parlare di una civiltà italiana dell’Adriatico orientale. Inoltre, tutta la classe dirigente, sia nei territori che fino al 1797 appartenevano alla repubblica di San Marco, ed anche in quelli che fin dal ‘300 appartenevano alla corona asburgica, come ad esempio Trieste, è tutta linguisticamente e culturalmente italiana. Non è naturalmente italiana dal punto di vista politico, perché la nazione italiana non è stata ancora inventata, e le fedeltà quindi vanno a San Marco o agli Asburgo, di solito antagonisti gli uni con gli altri. Parallelamente, la rivalità è molto forte anche fra le élites italiane, ad esempio fra quelle triestine e quelle veneziane.
Dietro invece i gruppi linguistici sloveni e croati non sta una cultura alta ed essi non esprimono una classe dirigente, perché ricoprono l’ultimo gradino della scala sociale. La conseguenza è ovvia: quando dopo la conquista napoleonica, e poi la restaurazione, comincia a svilupparsi un discorso nazionale, i primi che lo recepiscono sono gli italiani, perché sono gli unici a disporre di una classe dirigente in grado di farlo proprio. Ciò avviene nel corso della prima metà dell’800, con differenze però molto significative, perché nell’area giuliano-dalmata possiamo in realtà distinguere molto bene tre fasce: la Dalmazia, l’Istria e Trieste, caso al quale assomiglia molto, se pur su scala minore, quello di Fiume. Somiglianze e differenze le vediamo esprimersi molto bene in quel grande momento della verità che è la crisi del 1848.
In Istria, già appartenente a Venezia, la tendenza è quella risorgimentale, come nel resto d’Italia: non ci sono le condizioni pratiche per fare la rivoluzione, ma i primi gruppi di patrioti guardano con commozione alla nuova repubblica di San Marco, vogliono battersi per l’Italia unita e, se non possono fare altro, vanno a difendere Venezia. A Trieste invece non succede nulla: è l’unica fra le grandi città dell’Impero (Vienna, Budapest, Praga, Venezia, Milano) in cui la rivoluzione non scoppia. Soltanto, alcune decine di giovanotti guidati da un giornalista veneziano cercano di inscenare una manifestazione tricolore, ma vengono dispersi non dalla forza pubblica, ma dai facchini delle ditte di import-export. Dopo di ciò, dal momento che in tutta Europa è scoppiata la libertà e tutti parlano di diritti nazionali, gli esponenti più autorevoli della classe dirigente triestina si consultano e dicono: anche noi siamo una nazione, però non siamo né italiani né tedeschi: siamo cosmopoliti, Vale a dire, siamo una nazione non nazionale, il che, fra le varie esperienze del ’48 europeo è una delle più curiose.
Guardate però, che non si tratta affatto soltanto di una bizzarria, ma anzi di un segnale importante di come, alla metà del secolo, i giochi sono in realtà ancora aperti e la traiettoria che avrebbe condotto alla generalizzazione degli stati nazionali non è per niente scontata. Dietro quella strana affermazione sta infatti uno dei più potenti gruppi imprenditoriali dell’Impero, che a qual tempo è ancora la principale potenza continentale assieme alla Francia, e quel gruppo di imprenditori e politici ha un disegno strategico molto chiaro. Si tratta – nientemeno – di rispondere all’evidente crisi di legittimità del sistema creato dal congresso di Vienna, sostituendolo non con una galassia di stati nazionali, ma con un processo di unificazione continentale che parta non dalla politica ma dal mercato. Usando un termine attuale (all’epoca si parlava di “stato commerciale”) potremmo chiamarlo un mercato comune europeo comprendente tutta l’area tedesca, i domini asburgici, l’Italia e proiettato verso i Balcani. Questa grande area centro-europea – da cui il termine di “Mitteleuropea” – si sarebbe dovuta progressivamente unificare secondo quelle che oggi viene chiamata la logica “funzionalista” dell’integrazione europea, senza mettere inizialmente in discussione confini e sovranità. Come dire, l’Europa del mercato contro l’Europa delle patrie. Questo progetto arriva fino al governo di Vienna e poi fallisce (per varie ragioni, e con la conseguenza non da poco che l’unificazione tedesca si farà a guida prussiana), ma ricordarlo, anche in sede didattica, non è inutile proprio per le considerazioni che consente di formulare sia sui tempi della storia, sia sui caratteri e sui limiti dell’attuale processo di integrazione europea.
Comunque, tornando a Trieste, per tutto il Risorgimento la città conferma la sua fedeltà all’Austria e viene ricompensata con un’autonomia enorme: il comune assume competenze più ampie di quelle di un attuale regione italiana a statuto speciale. Ciò significa che di fatto i triestini si autogovernano, mentre il governo di Vienna garantisce i finanziamenti indispensabili per realizzare le infrastrutturre e per mantenere il dumping tariffario su cui si fonda l’economia emporiale. Non è un caso che questa sia rimasta nella memoria come l’età dell’oro di Trieste.
La terza fascia è quella della Dalmazia. Qui la classe dirigente è di origini etniche molto miste – prevalentemente italiani, croati e ungheresi – ma cementata dall’uso linguistico veneto, dalla cultura italiana e dallo stile di vita urbano. Però la Dalmazia non fa parte della penisola italica ed è evidente che non potrà venir coinvolta nel processo di unificazione nazionale: ne è ben convinto anche uno dei maggiori patrioti risorgimentali, cioè il sebenzano (vale a dire di Sebenico) Niccolo Tommaseo. E allora, l’élite dalmata elabora il concetto di “nazione dalmata”, etnicamente mista ma di cultura italiana, e la sua richiesta politica è quella dell’autonomia, che metta la Dalmazia al riparo dalle ipotesi di ristrutturazione dello spazio asburgico promosse dai croati di Zagrabria, che vorrebbero inglobare anche la Dalmazia in un’unica provincia croata.
Questo disegno strategico funziona, ma dura poco ed anzi la Dalmazia diventa il primo punto di crisi per l’italianità adriatica. La ragione è evidente: la nazionalizzazione degli italiani – anche se in forme politiche molto prudenti – è solo il primo passo di un processo di modernizzazione politica che coinvolge progressivamente non solo i centri urbani, ma tutto il retroterra abitato da popolazioni rurali di lingua croata. Questo fenomeno presenta due aspetti fra loro collegati: nazionalizzazione e democratizzazione. Ciò significa che dapprima si creano le élites nazionali croate, poi queste si impegnano a nazionalizzare le masse croatofone, ci riescono e nel contempo il suffragio si allarga. Il risultato è, che quando al voto arrivano decine di migliaia di elettori che si definiscono politicamente croati, la nazione dalmata urbana e il suo progetto autonomista vengono spazzati via.
Per la verità, le autorità austriache accelerano il processo, perché dopo tre guerre di indipendenza in meno di venti anni, non si fidano più tanto dei loro sudditi italiani, mentre i soldati croati hanno sempre versato il loro sangue per l’imperatore sui campi della Lombardia. Ma anche senza le forzature delle autorità sarebbe cambiato molto poco e negli anni ’80 l’unico comune ancora amministrato dagli autonomisti e non dai croati, rimane Zara.
I casi di Dalmazia lanciano l’allarme anche agli altri italiani, che cominciano a pensare: oggi è capitato a loro, domani potrebbe capitare a noi. Certamente, le situazioni sono diverse, perché in Istria e a Trieste gli italiani sono molti di più e per giunta hanno il monopolio del potere locale, però le cose cambiano: l’onda della nazionalizzazione di massa comincia a coinvolgere tutti, ed assume una caratteristica molto particolare.
Di solito, quando agli studenti spieghiamo questo problema della nazionalizzazione delle masse, facciamo riferimento ad uno schema che va benissimo per gli stati nazionali, in cui si dice, ad esempio, “fatta l’Italia bisogna fare gli italiani”, ed elenchiamo le grandi agenzie della nazionalizzazione dall’alto: scuola, esercito, burocrazia, religione della patria. Ma l’Austria asburgica non è uno stato nazionale, e di conseguenza lo stato non nazionalizza affatto le masse. Il processo però si avvia lo stesso, ma non viene gestito dalle istituzioni, bensì dalle stesse élites nazionali attraverso una fittissima rete associativa, presente contemporanemente e concorrenzialmente sul medesimo territorio.
Questo accade in molte regioni dell’Impero, e nella Venezia Giulia il caso forse più emblematico (anche perché meglio studiato) è quello di Pisino, piccola città al centro dell’Istria, a maggioranza italiana mentre la campagna è croata. Alla fine del secolo in quel piccolo borgo di qualche migliaio di abitanti si conta un centinaio di associazioni dei più diversi tipi, tutte rigorosamente doppie: una italiana ed una croata.
Contemporaneamente, a supporto delle pretese nazionali vengono elaborati i miti nazionali, che in parte vengono presi in prestito da quelli creati nel cuore della nazione (Firenze, Roma, Venezia, Zagabria), in parte costruiti in loco. Tutti presentano alcune caratteristiche comuni: la rappresentazione mononazionale di una realtà plurale ed i concetti di superiorità della propria nazione, di autoctonia – quest’ultima sempre rivendicata per sé e negata agli altri – e, conseguentemente, di diritto esclusivo al possesso della terra. Si tratta di un passaggio importante, a livello europeo. I movimenti nazionali tardo-ottocenteschi non concepisco la diversità nazionale come ricchezza, ma come limite alla piena realizzazione di un’identità nazionale, la propria. Il territorio deve sempre “appartenere” a qualcuno, cioè ad una sola nazione; e se di fatto ospita gruppi nazionali diversi, essi si considerano rispettivamente come ospiti indesiderati, estranei ad un ordine “naturale” delle cose, che va in qualche modo – talvolta in qualsiasi modo – ristabilito.
Fra le autorappresentazioni degli italiani e degli slavi però ci sono però anche alcune differenze importanti, legate a due diverse idee di nazione. Per gli italiani si tratta di una concezione volontarista, culturalista, inclusiva, che considera naturali i processi di assimilazione. Gli slavi invece, che mutuano la concezione tedesca (Blut und Boden), preferiscono una concezione etnicista, naturalista, che meglio si presta a difendere il corpo della nazione dal rischio dell’assimilazione culturale.
Questa differenza si somma ad un'altra, legata alle caratteristiche sociali e del popolamento. Per gli italiani, che provengono da una civiltà urbana, potere e legittimità abitano in città, mentre le campagne sono considerate semplicemente l’agro dei centri urbani, privo di personalità propria, ed i campagnoli vengono normalmente irrisi. Per gli slavi invece, il cuore del popolo batte in campagna, dove si coltiva la terra che nutre i cittadini parassiti. Combinate queste due concezioni (etnicismo e ruralismo) e trovate un concetto, che nella cultura politica italiana semplicemente non esiste: il concetto di “territorio etnico”, vale a dire del territorio abitato dalla popolazione rurale di una nazione, a prescindere dal fatto che al suo interno vi siano o meno delle “isole” urbane di altra nazionalità.
Ecco che in questo modo sono stati costruiti due schemi di lettura della realtà del popolamento nazionale assolutamente incompatibili ed incomunicabili. Li trovate espressi con grande evidenza nelle cosiddette “carte etniche” che vengono realizzate dagli intellettuali delle varie nazioni e su questi nodi ruoterà buona parte del dibattito nazionale nel ‘900.
Quindi, nell’area giuliana le nazioni si formano in maniera competitiva, e la prima conseguenza di questa nuova competizione per la nazionalizzazione delle masse, è che vengono meno i precedenti meccanismi di integrazione. Questi funzionavano in una sola direzione e si fondavano sulla modifica degli usi linguistici, che trascinava con sé l’inserimento in una identità culturale. I poli di questo sistema erano le città, che integravano gli apporti esterni. Il caso limite è quello dei centri moderni, Trieste e Fiume, considerati vere “fabbriche di italiani”. Trieste in due secoli ha moltiplicato trenta volte la sua popolazione principalmente per via di immigrazione, talvolta anche alquanto esotica. Tutti i cittadini, sia quelli vecchi che parlavano un dialetto friulano, sia quelli nuovi provenienti un po’ dappertutto dal continente e soprattutto dalle sponde mediterranee attratti dai privilegi dell’emporio, hanno assunto la lingua veneta in quanto lingua degli affari, e sono divenuti italiani: prima culturalmente e poi, progressivamente, anche da un punto di vista nazionale. La trasformazione si è compiuta di solito in una o al massimo due generazioni, perché di solito viene a coincidere con la promozione sociale.
A partire dagli anni ’80 dell’800 però accade che chi si inurba provenendo da territori dove si parla sloveno o croato, sempre meno è spinto a rinunciare alla propria madrelingua e quindi ad integrarsi in una società italiana, perché esiste un tessuto associativo culturale e scolastico sloveno e croato, che non solo lo spinge a mantenerla, la sua lingua madre, ma anzi ne fa il perno di una nuova identità collettiva, di tipo nazionale. Ciò significa che in un breve volgere di tempo sul medesimo territorio si creano società progressivamente separate. Di conseguenza, il numero di coloro che si considerano politicamente slavi cresce, mentre si allarga il suffragio. In Istria alla fine del periodo asburgico gli elettori slavi sono probabilmente maggioranza; a Trieste no, ma le proiezioni sono molto inquietanti e prefigurano uno scenario in cui, verso la metà del secolo, gli italiani saranno oramai ridotti in minoranza.
Nasce così e rapidamente si diffonde fra gli italiani una nuova percezione, quella del “pericolo slavo” e si innesca un circolo vizioso. La percezione di pericolo acuisce il sentimento nazionale italiano, tanto che vent’anni dopo la fine del Risorgimento, gli italofoni di cultura italiana di Trieste si sentono italianissimi e minacciati: di conseguenza guardano sempre più al regno d’Italia come unica protezione e si chiudono nella difesa ad oltranza delle proprie posizioni. A questa chiusura a riccio corrisponde un moltiplicarsi delle rivendicazioni del movimento nazionale sloveno e croato, che chiede parità di diritti nazionali (ad esempio nell’uso pubblico della lingua e nell’insegnamento) e proclama apertamente che prima o poi le isole italiane verranno inghiottite dal mare slavo. La risultante è la lotta nazionale ad oltranza, che diventa il problema centrale della vita politica nei territori giuliani, con un progressivo aumento del tasso di estremismo: fortunatamente, in genere si tratta solo di estremismo verbale, ma è chiaro che decenni di proclami incendiari preparano il terreno per esplosioni più gravi.
E veniamo qui ad un punto fondamentale per la comprensione delle dinamiche politiche tra fine ‘800 e metà ‘900, non solo nell’area giuliana, che è condensato e simbolo di tendenze generali europee. Qual è la posta del conflitto fra i movimenti nazionali? E’ il controllo delle istituzioni, perché tutti i gruppi dirigenti hanno compreso benissimo il ruolo strategico che le istituzioni svolgono nei processi di nazionalizzazione di massa. In questa visione quindi, che diventa appena possibile pratica politica ed amministrativa, le istituzioni perdono ogni imparzialità rispetto alle tendenze antagoniste presenti nella società civile, fino a divenire strumenti di sopraffazione di una parte sull’altra. In epoca asburgica la portata del fenomeno è limitata, perché la competizione si svolge in genere nelle amministrazioni locali, cui il sistema asburgico affida ampie competenze nelle materie nazionalmente “calde”. Quando però all’Impero si sostituiranno, dopo le due guerre mondiale, gli “stati per la nazione”, ecco che saranno le istituzioni dello stato a raccogliere le richieste di intervento provenienti dalle componenti nazionali antagoniste presenti sul territorio. Ed a quelle richieste le istituzioni statali risponderanno positivamente – prima l’Italia e poi la Jugoslavia – lanciando tutta la forza della macchina dello stato contemporaneo contro la minoranza nazionale rimasta dalla “parte sbagliata” della frontiera.
Tornando a fine ‘800, nella competizione nazionale a Treiste e in Istria gli italiani partono in vantaggio, ma rischiano di perderlo rapidamente, perché agli elementi di fragilità che abbiamo ricordato, se ne aggiungono altri. In primo luogo, le autorità austriache sono sempre meno disponibili a farsi carico della tutela degli italiani, di cui si fidano sempre meno, e promuovono una politica di bilanciamento delle nazionalità che mette in discussione quel monopolio del potere locale senza il quale gli italiani si sentono perduti. Lo dirà esplicitamente uno degli ultimi governatori asburgici, il principe di Hohenlohe, che avrà come programma quello di trasformare Trieste in una “città delle nazioni”.
In secondo luogo, lo sviluppo economico modifica i rapporti di potere: fino alla metà dell’800 nell’Impero asburgico esistevano tre grandi piazze finanziarie: Vienna, Praga e Trieste. Trent’anni dopo, dopo la grande depressione e la successiva ristrutturazione, ne sono rimaste solo due: Vienna e Praga, Trieste non c’è più. Lo sviluppo economico continua lo stesso, ma oramai è finanziato quasi integralmente o dal capitale austro-tedesco, oppure da quello ceco-slavo. Per di più, il capitale ceco non è politicamente neutro, perché in tutto l’Impero la borghesia ceca si presenta come l’alfiere dei diritti dei popoli slavi, e finanzia ovunque i movimenti nazionali slavi.
Qual è la conseguenza generale? Che l’autonomia istituzionale e il predominio politico degli italiani cominciano a scricchiolare, e senza quella gabbia protettiva gli italiani temono di venir facilmente inghiottiti dalla prevalenza numerica di sloveni e croati. Per di più, anche l’autonomia politica si sta svuotando di contenuti, perché la classe dirigente italiana sta perdendo il controllo dei gangli economici in una fase di trasformazione accelerata. Quel che segue è il panico e la soluzione politica escogitata per bloccarlo si chiama irredentismo, vale a dire volontà di distacco dall’Austria e richiesta di annessione all’Italia.
L’irredentismo giuliano ha una parabola piuttosto significativa, esemplare dell’evoluzione del clima politico non solo nella Venezia Giulia: comincia a sinistra e finisce a destra. Le prime frange irredentiste, che compaiono già nel corso degli anni ’70, sono vicine agli ambienti più radicali del movimento risorgimentale italiano, cioè al garibaldinismo e al mazzinianesimo. E’ a questo filone “democratico”, in senso risorgimentale, che fa riferimento quello che viene in genere considerato il primo martire dell’irredentismo, Guglielmo Oberdan (la cui vicenda meriterebbe un interessantissimo discorso a parte, perché offre moltissimi spunti).
Poi però all’irredentismo democratico, che non piace molto alla classe dirigente che si definisce liberal-nazionale, si affianca un altro filone, che guarda invece alle novità del panorama politico italiano, cioè al nazionalismo. Questo piace di più e diventa progressivamente l’ideologia dominante, di fatto condivisa e cautamente supportata anche dalla dirigenza politica liberal-nazionale. Tale è la versione dell’irredentismo che maggiormente si diffonde anche nelle organizzazioni di massa su base nazionale create dagli italiani in tutti i territori appartenenti all’Austria, su imitazione del modello creato dal movimento pangermanista. L’organizzazione principe è la Lega Nazionale, ma a fianco di essa esiste una miriade di altre associazioni, che effettivamente costituiscono un tessuto di massa, antagonista a quello slavo – altrettanto sviluppato – e sempre più fieramente avverso all’Austria.
Dal punto di vista del ragionamento politico, l’irredentismo deve però risolvere un problema di fondo, sentito per la verità molto più a Trieste che in Istria. Tutti sanno che dal punto di vista economico Trieste è una costruzione assolutamente artificiale dell’impero austriaco, che si regge su di un meccanismo di privilegi combinato a investimenti pubblici, sistema che ha come base il controllo del retroterra danubiano da parte del medesimo potere statale che gestisce l’emporio. Fuori da quel sistema, tutta l’economia giuliana, di cui Trieste è il motore, non ha più senso: questa è l’obiezione che agli irredentisti muove il movimento socialista, che ha dato vita all’unico partito austriaco della regione, nel senso che non ha un riferimento nazionale – anche se la sua dirigenza è di lingua e cultura italiana – e guarda con favore al mantenimento dell’impero.
E’ un’obiezione che viene considerata sensata anche dagli ambienti democratici, che non a caso, nei loro esponenti più giovani (Slataper, Stuparich), parlano di irredentismo culturale (che meriterebbe un’altro discorso a parte). Invece, i nazionalisti cercano di risolvere il problema rovesciandone i termini. Posto che economia e nazione sono in contraddizione, Trieste, se vuole rimanere nazionalmente italiana, deve trovarsi un nuovo ruolo: non più finestra del retroterra sul Mediterraneo, bensì trampolino per l’espansione italiana verso il retroterra danubiano. In altre parole, Treiste non deve più essere dominata dall’entroterra e dalle sue logiche, ma dominarlo. Questo è imperialismo.
Tale – purtroppo con le grandi schematizzazioni imposte dai limiti di questo intervento – è il panorama alla vigilia della prima guerra mondiale, e lo scoppio del conflitto radicalizza e semplifica le posizioni. Angelo Vivante, socialista, teorico dell’impossibilità dell’irredentismo e dell’assurdità di una guerra fra Austria e Italia, si butta dalla tromba delle scale. Scipio Slataper, alfiere dell’irredentismo culturale democratico, e Ruggero Timeus, propugnatore del nazionalismo e dell’imperialismo italiano, si arruolano entrambi come volontari irredenti nell’esercito italiano, assieme ad un buon numero di altri giovani triestini e istriani, ed entrambi cadono in guerra, medaglie d’oro alla memoria. Cade infine anche l’Impero, da molti maledetto in vita e rimpianto poi nel mito. Comincia per le terre che si affacciano sull’Adriatico orientale una nuova stagione, sicuramente assai più sanguinosa.